sabato 30 dicembre 2006

Psicoanalisi della minchia


La fraternità propria del Santo Natale reca conforto pure ai cuori più inclini al pensiero negativo, come conferma la seguente storia.
Avevo conosciuto questa signora fiera e ardimentosa - non è proprio una blogger secondo ciò che dice, ma legge alcuni blog tra cui pure il mio - una professionista romana affermata e orgogliosa della sua posizione sociale, bella, superatletica e perfino severa ammaestratrice di cani feroci che fanno venire la tremarella al sottoscritto. Naturalmente qualsiasi maschio – e sopra ogni cosa il qui tapino narratore affetto da atavica e inappagata fame femminile – vedendo questo po’ po’ di donzella bella e grintosa farebbe fuoco e fiamme per appropinquarsi a lei. La professionista bella e grintosa a dire il vero non ha solo pregi, ma pure qualche difettuccio. Diciamo che è un pochino spostata a destra politicamente. Niente di grave, e soprattutto nulla che possa impensierire lo sciagurato protagonista di questa storia, che nella sua attuale e gramigna fase esistenziale sarebbe disposto a inginocchiarsi perfino davanti a Hessa, ossia la nazista supereroina dai facili costumi protagonista di un conosciuto (almeno presso certi disperati reduci degli anni Settanta) fumetto per adulti. Tuttavia perfino a questo scellerato di bocca buonissima in fatto di donne non gli tornavano troppo certe apologie berlusconiane della grintosa professionista (il Cavaliere sarà pure un tizio ricco sfondato che ha fregato parecchia gente con la sua scadente parlantina, le scarpe con il rialzo nascosto e la parrucca o il trapianto capellifero, sarà perfino simpatico e capace di raccontare barzellette spassose, ma che qualcuno lo potesse considerare un grand’uomo era davvero dura da mandare giù).

Comunque ammetto di essere un debole, specie quando avvisto una sottana all’orizzonte, e se questa sottana appartiene a una signora che mi rivolge la parola, perfino virtuale, purtroppo smarrisco all’istante il mio poco raziocinio. Dopo un po’ di vaghe chiacchiere virtuali, comincio col far notare alla mia interlocutrice che mi sento solo e avverto la necessità e finanche l’urgenza di compagnia femminile. Lei si dimostra dispiaciuta per la mia infelice condizione esistenziale. Si offre perfino come consigliera spirituale e raccoglitrice di mie eventuali lagnanze del cuore. Con lei posso sfogarmi, mi fa capire. Lei, in una parola, è la soluzione a ogni mio problema. Allora ci do dentro con il triste racconto della mia disagiata permanenza su questa terra. Sono fortunato, lo ammetto, perché non devo mentire nemmeno troppo quando sciorino i miei guai esistenziali, anzi a dire il vero devo tenermi perfino un po’ al di sotto della realtà per non sembrare lo sfigato che sono. Per uscire dal mio vuoto affettivo avrei bisogno di una figura femminile, una figura - butto lì cercando di non pensare a qualche sparata seminazista della mia interlocutrice - gentile e comprensiva come quella con cui comunico. Anzi, dico alla piacente professionista mentre l’inedia sentimentale mi rende audace, vorrei incontrarla; se potessi starle vicino sono certo che mi sentirei meno solo e triste.
Non risponde per due giorni. Poi mi arriva una stranissima mail. Lei vuole aiutarmi. Davvero. E’ disposta a fare qualsiasi cosa per farmi uscire dalle mie difficoltà. Posso contare su lei senza remore. Sono commosso da quella manifestazione di affetto e le dico, sempre scordandomi dei suoi panegirici a favore del plutocrate di Arcore e di qualche tirata contro il Terzo Mondo e l’invasione di disgraziati che stiamo subendo, che niente mi farebbe più piacere che incontrarla. Sto quasi per proporle un giorno adatto per un appuntamento in cui tenerci per mano come due fidanzatini, ma poi soprassiedo in un impulso di prudenza. Meglio non strafare.

La mia cautela sembra premiata da una mail giunta a stretto giro di posta virtuale. Prima ancora di aprirla mi prende l’emozione. E’ lei che mi dice che ci sta, ne sono certo. Quella mail deve contenere perfino il luogo e il giorno dell’appuntamento agognato. E sarà un appuntamento a Napoli perché la generosa signora che monopolizza i miei pensieri, sapendo delle mie scarse risorse finanziarie e della mia difficoltà a spostarmi, vorrà favorirmi in ogni modo.
Apro la lettera, ma fin dalle prime battute mi pare che il contenuto differisca dalle attese. In effetti intercetto alcuni termini che non riesco proprio a collegare con le mie aspettative, e cioè “psicoanalisi”, “processi mentali inconsci” “esperienze metabolizzate” e “fase infantile” [è tutto vero alla lettera ndr]. Ovviamente mi strofino gli occhi per assicurarmi che la vista non mi giochi brutti scherzi. Ma quando riguardo la mail, la fraseologia aliena è sempre allo stesso posto. Leggo un mucchio di psiconalisi, psicoanalisi, psicoanalisi. Ogni volta che rumino quella parola noto che il mio stato d’animo precipita verso recessi profondi, ma infine mi imbatto in un passaggio che mi fa sperare in uno sbocco positivo, laddove la mia interlocutrice mi consiglia di “mettermi a nudo”… Tuttavia in pochi secondi afferro che questa frase ha un’accezione un filo diverso da come la intendevo io.
Leggo tutta la mail e mi domando se sogno. La bella e amabile professionista, la donna che avrebbe dovuto accompagnarmi in passeggiate romantiche tese a lenire la mia mestizia esistenziale, mi dice più o meno che per superare le mie problematiche non c’è niente di meglio che farmi un’autoanalisi. Leggo meglio, sillabo le parole per non sbagliare, e qui si parla proprio di Freud. La mia interlocutrice ha fiducia assoluta in ciò che definisce ritorno alla fase infantile, qualunque cosa sia. Inoltre afferma di aver consigliato questa sua terapia psicanalitica, questa introspezione fai da te, pure alle sue amiche, ottenendo sempre ottimi risultati. Le sue amiche sono rinate dopo aver seguito i suoi suggerimenti psicocurativi, e lo stesso è capitato a lei medesima. Mi parla proprio con il cuore in mano. Attuando una severa terapia analitica sotto la sua esperta supervisione, starò molto molto meglio.
Le mando una lettera in cui le dico che non ho capito quasi niente di ciò che ha detto (avrei voluto dire “farneticato”, ma poi mi sono trattenuto). Espongo qualcuna delle mie più diplomatiche e eufemistiche opinioni sulla psicanalisi per non offenderla e infine dico che quella proposta non mi sembra la strada per risolvere i miei disagi esistenziali.
Segue una sua mail postata alla velocità della luce. Dice che ora si è proprio scocciata di me e della mia ironia a buon mercato. Lei cercava di aiutarmi, ma io sono individuo meschino e ingrato che non merita niente, solo di crogiolarsi nella sua solitudine. Dopo avermi cannoneggiato con vari appellativi poco lusinghieri, mi ingiunge di cancellare il suo indirizzo dall’agenda di Outlook e sbraita che non risponderà più a mie lettere.
Io che dovevo fare, dopo aver letto l’ultimo delirio? L’Onnipotente mi è testimone che ho cercato di controllarmi. Che ho chiesto il Suo aiuto per non cedere alle lusinghe della riprovevole ira. Che l’ho pregato di non farmi soccombere agli istinti di bassa lega. “Signore”, l’ho implorato, “fammi agire da uomo civile”. Ma poi ho sentito che non potevo oppormi all’inevitabile esito di quella storia. Ho aperto la posta elettronica e ho scritto una mail in cui esprimevo un unico e stringato concetto: “Psicoanalizzami questo cazzo!”

sabato 23 dicembre 2006

Sei bella Napoli quando canti


Stamattina ho pensato nitidamente che la canzone napoletana è superiore a quella italiana. E’ un dato di fatto, mi sono detto, non c’è match.
Volevo scrivere un post su Chaplin, lo sto rimandando da un po’, ma in queste feste ci sarà il tempo e l’occasione. Poi ho sentito la radio e ho fatto quella riflessione che mi ha indotto a cambiare tema del post.
A casa mia la radio in genere è sintonizzata, non per mia volontà, su una stazione che trasmette solo musica napoletana. Sulle prime ironizzavo su quella scelta, perché le canzoni di questa emittente sono melodie non classiche e nemmeno molto apprezzate dai critici (da ragazzo avevo una grossa avversione per la musica napoletana, anche per quella colta, e penso che echi di questo atteggiamento siano sopravvissuti in me anche se ho cambiato idea sulla musica partenopea e non solo). Per intenderci non si tratta di pezzi illustri come “Dicitencello vuie” o “’Na sera e maggio”, ma di brani moderni appartenenti al genere musicale detto “neoromantico”, quello cioè da cui sono usciti Nino D’Angelo, e i due Gigi, D’Alessio e Finizio. Cioè il genere che si dovrebbe definire l’erede della sceneggiata napoletana.
Dunque ero in cucina a fare colazione con la solita tazzina di caffè quando la radio trasmette questa canzone, un duetto tra una voce maschile e una femminile. Il testo non era oltremodo elaborato, come in tutte le canzoni di questo tipo, c’era una donna sposata con un figlio innamorata di un terzo uomo, ma l’importanza di un testo musicale non sta nella sua complessità, bensì nell’efficacia, e quel testo era efficacissimo.
Dio mio, mi sono detto, ma guarda che canzone! Mille volte meglio di certe melense schifezze in italiano cantate da gruppuscoli moderni che vanno per la maggiore. Mi riferisco a quei tizi vestiti da cascamorti semidark che ragliano di amore in un modo che dovrebbe apparire ridicolo pure a una tredicenne con problemi affettivi.

Davvero ho sentito un brivido mentre ascoltavo quella melodia napoletana. E ho riflettuto che le canzoni in italiano dovrebbero avere mille e mille vantaggi su quelle partenopee. Prima di tutto c’è un numero molto più grosso di autori che si dedica a esse. E poi molti dei migliori autori di canzoni napoletane scrivono ormai in italiano per avere maggiore successo o perché si sentono di fare così (Edoardo Bennato, Enzo Gragnaniello e tanti, tanti altri). C’è rimasta solo una sparuta cerchia di irriducibili mezzo analfabeti a scrivere moderne canzoni in napoletano e guarda qui che cosa sono capaci di tirare fuori! Mi dicevo proprio così, guarda qui che forza!
Il motivo che ascoltavo stamattina a un tratto diceva le parole, cito a memoria di certo sbagliando “Piglio ‘o criaturo, ‘o rravoglie int’’o scialle e vengo addu te” (la signora innamorata si sarebbe presentata dal suo amante con il bambino avvolto nello scialle, e lo avrebbe fatto non come una donna di Sondrio o della solita Voghera, ma come una napoletana verace, come un’Angela Luce moderna, e i versi della canzone ti comunicavano con precisione questa sensazione). Ho trovato quei versi perfetti, semplici ed efficacissimi, con una potenza espressiva rara a vedersi, di sicuro estranea ai lamenti musicali di certi debosciati divetti che fanno anticamera nei salotti sanremesi. Sto cantando quel motivo in questo momento (non sono capace di smettere, ma mi passerà, mi passa sempre) e mi dico: che cosa sarebbe, la canzone napoletana moderna, se invece di pochi autori in bilico tra il coatto e la semidelinquenza (parecchi di questi cantautori gravitano intorno al giro camorristico), vi si dedicassero a tempo pieno i migliori artisti musicali di questa città e di questa regione?

Ultima di oggi. Qualche sera fa nell’autobus che mi riportava a casa ho sentito una ragazzina che ascoltava dal telefonino, con i modi estremamente liberi in uso nella mia città, una canzone napoletana moderna, cantandola ad alta voce insieme alle sue amiche, incurante che ciò potesse disturbare il resto dei passeggeri. In un altro momento avrei sorriso con superiorità verso quella ragazza e l'avrei compianta come povera popolana (vaiassa, nel nostro dialetto, cioè abitante dei bassi partenopei e dunque non molto raffinata). Quella sera mi sono detto invece che la canzone era bella, come pure la ragazza, e che tutte e due, la canzone e la ragazza, avevano una forza espressiva che non sarebbe facile da trovare in altri parti del mondo.

Leggi: Napule è mille culure
Salvate il napoletano che muore
Italiano contro napoletano

mercoledì 20 dicembre 2006

I crassi pagani natalizi


Un paio di giorni fa camminavo per Napoli centro. Probabilmente la mia città somiglia a qualsiasi città italiana in questo periodo. Addobbi, luci, vetrine sfavillanti piene di roba inutile che chissà perché sembra irrinunciabile, grandi sorrisi ai quattro punti cardinali e un mucchio di gente dedita al crasso e sfacciato consumismo. C’erano pure alcune Babbo Natale in minigonna e tacchi a spillo, bone e coscione da farti stare male, da cui mi tenevo alla larga per non cadere in reazioni inconsulte e poco natalizie. Io la mia parte di consumismo l’avevo già svolta comprando i libri usati menzionati un paio di post fa e mi aggiravo per via Roma, chiusa al traffico, osservando la gente come se mi trovassi in un vecchio film di Frank Capra. Non voglio dire che avevo i pensieri negativi di James Stewart in La vita è meravigliosa, ma certo trovavo poco da ridere in ciò che vedevo.
Provavo una lieve antipatia per la gran parte dei passanti che incrociavo e mi chiedevo vagamente per quale percorso mentale arzigogolato [ariela sarà lieta per questo aggettivo] la pura manifestazione di paganesimo moderno di cui ero testimone fosse accostata a pensieri sacri. Mi ritrovavo a declinare il presente indicativo del verbo paganeggiare, domandandomi se il mio disagio non fosse dovuto alle difficoltà incontrate nell’attuare la prima persona singolare di quel verbo.
La libreria Feltrinelli era piena di gente, che se andava con le mani piene di volumi. Prendo un romanzo a caso dall’espositore con i libri più venduti e ne leggo il prezzo. Venti euro. Roba da pazzi. Esco e mi imbatto in persone che mi rifilano volantini commerciali di ogni tipo. Inviti a comprare computer, televisori lcd, macchine da caffè espresso in offerta speciale, telefonini triband, con Bluetooth, Gprs, display a 262144 colori e memoria supermegaextra, perfino il tagliacapelli con la batteria garantita 10 ore, 12 altezze di taglio e set accessori incluso. Naturalmente faccio una palla di carta di ogni volantino consumistico e lo butto a terra (tanto, mi dico, se i marciapiedi di via Roma possono sopportare la presenza di tanti crassi pagani, non faranno caso a qualche innocua cartaccia qui e là).

Infine arrivo a piazza Carità dove un ragazzo zelante mi ammolla il solito volantino. Sto per farne la solita sfera di carta da rilasciare sui marciapiedi partenopei, quando mi accorgo che l’ultimo foglietto è un po’ diverso dai soliti. È un semplice foglio bianco e pubblicizza un prodotto molto diverso. Leggo infatti le parole “Gesù Cristo” e “Cristo è vita”. Sono incuriosito e leggo tutto il foglietto. Parla di Gesù che ti è amico e che è venuto sulla terra per salvarti. Presenta una figura amichevole del Cristo, come di qualcuno che può ascoltare i tuoi problemi e può aiutarti a risolverli. Mentre camminavo tra gli alieni sibariti di via Roma, ho sentito una piccola fiammella di calore tenendo questo volantino in mano. Un’emozione giungente forse da antiche suggestioni provate un paio di vite fa nel cortile dell’associazione cattolica. Insomma, suggeriva una voce, da qualche parte c’è qualcuno disposto ad ascoltarti e magari ad alleviare la tua solitudine. Non ho buttato il volantino, ma l’ho conservato in tasca. Lo sto leggendo adesso davanti al computer.
Non ho nessuna voglia di convertirmi a qualsivoglia religione (il volantino era di un non meglio identificato gruppuscolo evangelico), né men che meno di chiamare i numeri di telefono impressi sul foglietto. Però mi è piaciuto ricevere quel volantino, quel giorno, in quella particolare strada, in quel particolare stato d’animo.

lunedì 18 dicembre 2006

Donne eccezionali amano


Qualche anno fa vidi uno struggente documentario. C'erano delle donne russe, mogli o fidanzate di condannati a morte. I condannati a morte erano prigionieri in un edificio antico e alto che dava su una piazza di Mosca. Ogni giorno a mezzogiorno circa, queste donne valorose si ritrovavano nella piazza moscovita e aspettavano conversando tra loro. Nell'edificio dei condannati a morte, lassù in alto, c'era una finestrella provvista di sbarre, come quelle di certe fiabe con le principesse imprigionate nelle torri. Ai galeotti a quell'ora veniva concesso qualche minuto per fumarsi una sigaretta e potevano farlo sporgendosi da quell’angusto punto di vista sul mondo.

Le mogli dei condannati a morte li vedevano e li salutavano mandandogli baci. La scena durava al massimo sessanta secondi. E si verificava solo ogni due o tre giorni (molti di quegli uomini con la vita segnata non si facevano vedere perché avrebbero preferito che le compagne si ricostruissero una vita altrove). Queste donne straordinarie avevano organizzato tutta la loro esistenza intorno a quella fugace sbirciata rivolta a una sagoma lontanissima e indistinta che non pareva nemmeno umana. Non c’era fisicamente il tempo di fare altro. Dormire, fare il lungo viaggio di andata in un torpedone mezzo scassato, aspettare in piazza con le altre donne, sperare di vedere per qualche secondo la sagoma del loro uomo. Fare il lungo viaggio di ritorno, svolgere qualche faccenda domestica, dormire. E ricominciare daccapo. Fino alla morte dell’uomo amato.
Sarebbero morti uomini, non certo amori.

Dedico questo post a Barbara che oggi ha annunciato di voler abbandonare il blog, spero e credo in modo temporaneo. Barbara ha molte doti che ne fanno una bella persona, ma la principale è a mio avviso quella di amare senza remore. Lei è del tutto estranea alle ripicche e alle recriminazioni, sia pur legittime, alla Desperate Housewives o alla Sex and the City. Difende il suo amore, anche quando è finito, contro tutto e contro tutti, anche contro se stessa.

Bella da morire - La formula dell'amore 3


Iniziamo il nostro viaggio nella formula dell’amore. E’ evidente a chiunque che l’aspetto fisico di un eventuale partner sentimentale è essenziale nel generare attrazione e quindi amore. L’amore infatti deve essere considerato una strategia evolutiva per consentire agli uomini di procreare nelle migliori condizioni possibili e di assicurare alla prole i massimi vantaggi esistenziali. E’ evidente che accoppiandoci con un partner bello e prestante fisicamente i vantaggiosi geni di quest’ultimo andranno a migliorare la robustezza e la resistenza alle malattie dei nostri figli.

Una cosa infatti che non salta subito all’occhio è che una persona realmente bella non è, da un punto di vista biologico, bella ma sana. Chi è bello comunica a livello subliminale di essere forte, sano e capace di generare una prole potenzialmente vincente nella lotteria evolutiva. Di conseguenza sia gli uomini che le donne hanno sviluppato nel corso della storia la tendenza ad apprezzare la bellezza nei partner sessuali e a farsi sedurre da essa. Come è ovvio le caratteristiche fisiche apprezzate da ciascun sesso sono in qualche caso diverse; le donne mostrano di preferire maschi alti e con spalle grosse, probabilmente a causa dell’aiuto e della protezione di cui hanno necessitato storicamente durante la lunga e problematica fase della gravidanza e quindi del successivo non meno problematico allevamento dei figli (i piccoli dell’uomo sono le creature animali più bisognose di cure e più tardive nel diventare autosufficienti). I maschi apprezzano le caratteristiche femminili atte a mettere al mondo con successo un figlio, ossia fianchi larghi utili al momento del parto, seni grandi, cuscinetti di grasso disposti in aree strategiche del corpo che attestano che la donna dispone di sufficienti riserve energetiche a cui attingere durante la gravidanza (fenomeno quest’ultimo svoltosi quasi sempre in regime di cibo scarso e non facilmente procacciabile).
Uno dei parametri principali di bellezza percepita è la simmetria, ossia la regolarità dei tratti somatici, la quale è il miglior certificato medico che un individuo possa produrre. Le irregolarità sono infatti spesso da attribuire a difetti genetici, tossine, mutazioni, malattie, quindi tradiscono una salute non buona. Esperimenti condotti mostrando foto di possibili partner a studenti universitari e chiedendo di assegnare loro un voto hanno rivelato che le foto mostranti maggiore simmetria nei tratti del viso (zigomi, naso, occhi, mascelle) erano quelle che incontravano maggiori favori.

Essendo così rilevante la bellezza nel generare attrazione e quindi successo sessuale e sentimentale, è evidente che gli esseri umani abbiano inventato vari sotterfugi per “imbrogliare” un possibile partner sulla loro desiderabilità biologica. Ecco dunque tutto il dispiegarsi dell’arsenale della cosmetica tradizionale (ciprie, rossetti, rimmel, trattamenti per capelli, parrucche, lozioni, lacche, busti, manicure e via dicendo), rinforzati di recente dalle “meraviglie” della chirurgia estetica (liposuzione, seni siliconati, labbra gonfie, nasi rifatti, e perfino in certi casi ossa allungate chirurgicamente, le quali ultime sembrano destinate a sostituire i tacchi, palesi o nascosti, che si sono sempre usati per aumentare altezza e quindi attrattiva fisica).

Veniamo ora alla mia formula dell’amore, la cui rappresentazione completa è qui. E concentriamoci sulla valenza numerica da assegnare alla bellezza del partner (o più in generale alla prestanza fisica) in un’equazione che descriva questo sentimento. Ho ritenuto che questa categoria dovesse essere valutata in modo diverso a seconda dei maschi e delle femmine per motivi che dirò poi. All’importanza della bellezza nel suscitare amore nei maschi ho ritenuto di assegnare un valore di 4a (ossia si assegna un voto da uno a dieci alla bellezza di un eventuale partner femminile e si moltiplica quel valore per quattro; la procedura in caso di valutazione di un compagno maschio è la stessa, solo che in quel caso si moltiplica per due il valore assegnato).
Naturalmente questa assegnazione numerica è del tutto arbitraria e non molto precisa. Per la corretta valutazione della bellezza nella percezione dell’amore avevo pensato, per i maschi, alla seguente espressione matematica. Bellezza = (a² – 4a). Questo mi pareva un valore più adeguato perché premiava meglio dell’altra formula la bellezza nella donna punendone la mancanza. Infatti si noterà che questa seconda formulazione algebrica può ottenere un punteggio massimo di 60 assegnando ad a il valore di 10 ( contro il tetto di 40 della formula semplificata). Al contrario in caso di valori bassi di a si ottiene un punteggio perfino negativo (l’inconveniente è che assegnando il voto 2 con questa formula si ottiene un risultato peggiore che assegnando un 1). In tutti i modi questo modo di valutare la bellezza ai fini dell’amore era evidentemente troppo tortuoso.
Riassumendo. Ecco i valori della bellezza del partner nel suscitare amore. In caso di innamorando maschio, 4a; per l’innamoranda femmina 2a.

Mi riservo di scrivere una postilla per spiegare perché la bellezza fisica, unitamente alla giovinezza del partner, assume un’importanza diversa nel generare attrazione (e credo pure amore) a seconda che sia interpretata da un cervello maschile o femminile.

venerdì 15 dicembre 2006

Di libri, ma soprattutto di sguardi languidi


Era forse cieca?
No, mi pareva che ci vedesse benissimo, non aveva nemmeno gli occhiali.
Era strabica, nel senso che sembrava guardare verso di te e invece volgeva la vista altrove?
No, quale strabica, aveva un paio di occhi belli e regolari.
Allora forse ti controllava unicamente per non farti fregare il libro che avevi in mano (a proposito voglio sapere che libro era).
Sei del tutto fuori strada. Quella lì mi guardava come una donna guarda un uomo, quella mi voleva!
Esagerato.
Sì, forse un pochino, però scordati di pensare male.

Ieri, come si potrà arguire dal mio ultimo post, non ero molto allegro e in vena di buonisti pensieri natalizi. In effetti, per dirla com’era, ero piuttosto incazzato. Guardando il telegiornale dicevo stronzo e stronza a tutti quelli che venivano intervistati su qualunque argomento, qualunque opinione sostenessero. La mia reazione poteva pure essere giustificata in più di un caso, ma è chiaro che quando sei in questo stato d’animo è segno che le cose non vanno come dovrebbero.
Di sera ho deciso di andare a Napoli centro per sbirciare un po’ sulle bancarelle di libri usati a Port’Alba, azione che ha un effetto mitigatore sul mio umore come una razzia in boutique lussuose ce l’ha su certe donzelle non troppo dedite al pensiero riflessivo. Sono salito a piedi per via Mezzocannone e quindi dopo una scarpinata approdo alle mie amate bancarelle. Purtroppo ho notato quasi subito che lo scartabellare tra i libri usati non mi rasserenava come avevo sperato. Era tutta roba che già conoscevo e non mi pareva di vedere offerte davvero interessanti.
Quand’ecco che quasi alla fine di Port’Alba si verifica l’evento atteso, o per meglio dire inaspettato. Avevo in mano un saggio scritto da Luis Alvarez, cioè il fisico che con suo figlio Walter ha elaborato la teoria del meteorite che ha portato all’estinzione i dinosauri. Non era male e costava solo due e cinquanta, ma avevo letto già molto su quell’argomento e mi chiedevo se ero nella disposizione d’animo per affrontare un sia pur appassionante libro di teorie evolutive. Mentre esitavo con il saggio in mano, ecco che dalla libreria della bancarella esce una bella ragazza, la commessa, la quale mi guarda mentre fuma una sigaretta.
L'ho guardata pure io e quella continuava a fissarmi (mi pareva come una donna fissa un uomo, anzi ne sono certo). Ci siamo osservati diversi secondi. Poi la ragazza è tornata all'interno. Me ne sono rimasto un altro po’ con il libro di Alvarez in mano, ma ammetto che all’improvviso ero poco interessato alle spiegazioni della retrocopertina sullo strato geologico di iridio risalente a sessantacinque milioni di anni fa. Dopo qualche secondo la donzella esce di nuovo e mi fissa ancora (ripeto che era una bella ragazza). Io che dovevo fare? Le scocco una delle mie occhiate assassine che suonano più o meno: “Sei più desiderabile di una bistecca fiorentina in regime di proibizionismo da mucca pazza”. Insomma ci scambiamo una seconda occhiata lunga e quasi inquietante. Stavo già per precipitarmi verso di lei con il saggio che stringevo in mano (questa magari è un’esagerazione letteraria, dato che se fossi questo tipo di persona mi sarei trovato in una discoteca e non davanti a una bancarella di libri usati), quando ecco che dalla libreria emerge il ragazzo della commessa, il quale non trova di meglio da fare che mettersi tra me e lei.
Addio sguardi malandrini. Ho dovuto battere in ritirata. Però sulla strada del ritorno mi dicevo: mica devo essere tanto male se quella bella ragazza mi concupiva! Avrò forse sognato a occhi aperti?
Per completezza di informazione devo dire che poco dopo questo evento, un’altra ragazza per strada ha ricambiato il mio sguardo a lungo e anche questa non era male. Non sarà che per Natale le donzelle accusino un calo di diottrie visive?

Ah, ieri non ho comprato niente. Però ho deciso che la prossima volta comprerò il saggio di Alvarez, tanto sta lì da un paio di mesi ed è improbabile che qualcuno me lo freghi… ovviamente l’acquisto sarà l’occasione giusta per dare un altro sguardo alla fanciulla e verificare se la sua vista funziona come dovrebbe. :-))

giovedì 14 dicembre 2006

La scuola dell'odio


Oggi, cari allievi, inauguriamo la nuova materia prevista nell’ultima riforma scolastica, l’odiologia.
Che cos’è l’odiologia? Be’, è difficile dare una spiegazione di questa nuova e apprezzata disciplina scientifica. Volgarizzando molto le cose, potremmo dire che l’odiologia ci insegna a collocare nell’adeguato contesto culturale tutti gli stronzi e i cazzoni pieni di sé che proliferano sul nostro pianeta. Gli stronzi e i cazzoni, è stato osservato da più parti, si riproducono ormai a ritmo impressionante, seguendo curve esponenziali fuori qualsiasi controllo demografico, occupano tutti gli habitat, si appropriano di ogni spazio mentale. In sostanza, se permettete una licenza linguistica al vostro vecchio insegnante, ci rompono il cazzo dovunque. Una recente indagine promossa dal ministero della Cultura in collaborazione con quello della Ricerca Scientifica ha stabilito che con l’attuale ritmo di sviluppo gli stronzi e i cazzoni si saranno del tutto impossessati dell’umanità entro l’anno 2029, occupando ogni nicchia culturale e sociale. Già dal 2016, dice questo importante rapporto, il loro numero avrà superato la soglia oltre la quale sarà impossibile combatterne l’esistenza. Tutti i modelli matematici a nostra disposizione, gentili allievi, provano che dobbiamo vincere la nostra battaglia prima di quell’anno fatidico, anche se la situazione appare già parecchio compromessa.
Per evitare lo scenario di un mondo completamente asservito a cazzoni, stronzi e figli di puttana vari il Ministero della Pubblica Istruzione, con l’alto patrocinio della Presidenza della Repubblica, dell’Accademia Nazionale dei Lincei e dell’Istituto Superiore di Sanità ha sviluppato un programma per fronteggiare l’emergenza. Programmi consimili sono stati sviluppati negli altri paesi della Comunità Europea, negli Stati Uniti - dove è già attivo da qualche anno l’apprezzato Institute of Hate Against Human Idiotic Great Penis - e in altri paesi evoluti. Attivisti per i diritti civili intanto sviluppano campagne di informazione per far firmare un protocollo mondiale di intenti per modificare e diminuire l’emissione di stronzi all’interno della specie umana. Si sta ormai facendo strada l’idea che, come la lotta contro altre calamità, come la droga o l’inquinamento, la battaglia contro i molti imbecilli che appestano il mondo possa essere vinta solo con una strategia globalistica.

Dunque, facciamo la conoscenza con questa nuova materia scolastica, avvertendovi che da oggi in poi l’odiologia diventerà la disciplina più importante del vostro studio, molto più dell’italiano o della matematica. Non pensate che sia una materia facile e non aspettatevi indulgenza dal sottoscritto. Pretenderò che impariate a odiare come non avete mai fatto e farò piangere lacrime amare a tutti quelli che si presenteranno davanti a questa cattedra con qualche cretino discorso buonistico o peggio ancora con qualche sviolinata imbevuta di politicamente corretto. Se tra voi, cari allievi, si aggira qualche anima da boy scout, consiglio a costui di applicarsi subito con lo studio, magari esercitandosi a sputare sulle vetrine natalizie e a bucare le ruote alle auto dei tanti coglioni bipedi di questo mondo. Quando andremo avanti negli studi, nelle ore di laboratorio assegnate alla nostra disciplina, vi assegnerò qualche progetto di odio più impegnativo e pratico, ma per ora ci impegneremo soprattutto sulla teoria. Ora facciamo qualche domanda a caso per verificare la vostra preparazione nella mia materia. Tu al primo banco, sì, tu con gli occhiali, fammi una proposta per affrontare la nostra emergenza mondiale.

Che ne direbbe, signor professore, di eliminare dalla faccia della terra qualche decina di milioni di persone, cioè volevo dire di stronzoni, signor professore?

Bravo, non c’è male, ti meriti un sei più. Avresti avuto un voto più alto ragionando in termini di miliardi e non di milioni. Ma niente paura, abbiamo tutto l’anno scolastico a disposizione per migliorare la nostra ostilità verso l’imbecillesco prossimo di questa terra.

martedì 12 dicembre 2006

Dieci canzoni per me - Gli assi della coppia Mogol-Battisti


“Che ne sai tu di un campo di grano?” e “La paura di esser preso per mano che ne sai?”
Se qualcuno ha sentito versi più suggestivi e forti di questi in tutta la musica italiana, non solo quella leggera, si faccia avanti ora.
Le canzoni, l’ho sempre detto, sono soltanto emozioni in musica, da custodire in luoghi preziosi. So per certo che alcune delle melodie create dalla coppia Mogol-Battisti sono conservate nello scomparto più sacro della mia mente, quello dove riponi le cose che hanno lasciato un’orma profonda nella tua vita, l’area cerebrale che probabilmente si spegnerà per ultima quando verrà il momento.
E’ incredibile la quantità di canzoni belle che ha accompagnato la produzione musicale di questa incredibile coppia della musica leggera italiana. Ispirandomi al titolo di un successo battistiano, ho deciso di scegliere dieci canzoni, quelle a cui sono più legato nei sentimenti, per rappresentare la produzione di questi due giganti della melodia. Dieci canzoni per me posson bastare come dieci ragazze per Lucio. Le cito alla rinfusa perché mi è difficile fare una classifica musicale, ma soprattutto affettiva tra questi dieci pezzi.
Ricordo che ascoltavo ragazzino questi brani alla radio, durante la mitica “Hit parade” presentata da Lelio Luttazzi. Quando arrivava il momento delle tre canzoni più vendute speravo sempre, per usare il linguaggio luttazziano dell’epoca, che l’ultima creatura di Battisti, quasi sempre “regina” per mesi e mesi, non fosse retrocessa all’avvilente posizione di “damigella d’onore” (ossia al secondo o al terzo posto).
L’ultima questione da segnalare è che solo da poco tempo si sta imponendo l’idea che, a differenza di ciò che si è detto durante tutta la sua carriera, Lucio Battisti, pur non disponendo di un’impostazione vocale da cantante tipico, è stato un interprete efficace e originalissimo della quotidianità. Anzi probabilmente gran parte del suo successo è dovuto proprio a quello da sempre considerato il suo tallone d’Achille, cioè il suo canto, il solo canto che è riuscito a valorizzare al massimo “i giardini di marzo” e “le discese ardite e le risalite”, L’“acqua azzurra, acqua chiara” o le Francesche che non possono essere con l’uomo con cui le hai viste.

Pensieri e parole. Un pezzo straordinario, insuperabile. Oltre ai versi di apertura del post, questo brano può contare su “E di un mondo tutto chiuso in una via / e di un cinema di periferia / che ne sai della nostra ferrovia, che ne sai?”. E ancora di più ti colpisce quando ti confida che “Tu sola sai / se è vero o no / che credo in Dio”. Nessun pensiero e nessuna parola potranno rendere giustizia a questo splendore di canzone.

L’aquila. Amavo questa canzone nella versione di Bruno Lauzi, che è poi quella più conosciuta e di successo (detestavo Lauzi, all’epoca mi sembrava un vecchio arnese da far pena, ma non quando cantava questa canzone). I punti straordinari di questo pezzo: “Un’automobile corre / e lascia dietro sé / del fumo grigio e me / e questo verde mondo nel quale mi confondo”. Il massimo della suggestione qui: “”Ma un’auto che va / basta già a farmi chiedere se io vivo”.

Vendo casa. Inaudita e delicatissima canzone portata al successo dai Dik Dik. Una casa polverosa, piatti sporchi in cucina, un giardino in disfacimento, la soddisfazione di chi gode delle tue disgrazie. Muore la casa che ha visto un amore finito per sempre. Le ultime parole: “Questa casa è tutta da bruciare”.

I giardini di marzo. Forse la più poetica canzone battistiana. Piena di atmosfere autunnali e vulnerabilità amorose. “All’uscita di scuola i ragazzi vendevano libri”, “Ma il coraggio di vivere quello ancora non c’è”. E’ già moltissimo, ma un amante delle grandi distese come me non poteva tacere dei “Fiumi azzurri e colline e praterie / dove corrono dolcissime le mie malinconie”.

La canzone del sole. L’immediatezza del messaggio semplice e fulminante. “Le bionde trecce, gli occhi azzurri e poi / le tue calzette rosse”: chi ha mai potuto scordare questo attacco? E che dire delle “Due arance ancor più rosse” o di “Cos’è rimasto in fondo agli occhi tuoi / la fiamma è spenta o è accesa”? Era la canzone di Battisti che mi piaceva di più da ragazzo insieme a “Fiori rosa, fiori di pesco”.

Fiori rosa, fiori di pesco. Ispirata pare a un non felice esperienza di Mogol, il quale trovò la sua innamorata in atteggiamenti poco ortodossi con un terzo individuo. La cantavo a perdifiato specie dove il ritmo aumenta. Ancora oggi non posso evitare di liberare la voce quando arrivano i versi “Posso stringerti le mani? / Come sono fredde tu tremi / No, non sto sbagliando mi ami / Dimmi che è vero”.

Emozioni. Da sempre considerata la più lirica canzone del duo Mogol-Battisti. Chi non ha mai immaginato cosa si provi a guidare come un pazzo a fari spenti nella notte “Per vedere se poi è tanto difficile morire”?

Il mio canto libero. “In un mondo che / non ci vuole più / il mio canto libero sei tu”. Inutile sprecare aggettivi roboanti. Mi si stringeva il cuore quando ascoltavo questo pezzo alla radio, schiacciandovi quasi l’orecchio sopra e avrei gridato quando Lelio Luttazzi annunciava che l’eroico Lucio Battisti, rintuzzando l’attacco dei malevoli avversari canori, aveva conservato per l’ennesima settimana consecutiva il gradino più alto della Hit Parade.

Il vento. Canzone portata al successo dai Dik Dik basata su due-accordi-due. E’ uno di quei pezzi malinconici da ascoltare quando sei in vena di sentirti sconfitto in amore, ma ciononostante eroico. “Cara, son le otto del mattino e tu ancora stai dormendo” e io ho fatto le valigie e sto per uscire per sempre dalla tua vita senza una parola.

Due mondi. Tratta dal misconosciuto album “Anima latina”, E’ una canzone che nessuno, ma proprio nessuno cita quando si parla dei migliori pezzi di Battisti-Mogol. A me è sempre piaciuta un sacco soprattutto per via del travolgente ritmo caraibico.

7 e 40. Trascinante canzone degli esordi. Il merito in questo caso pare quasi tutto di Battisti,che con la sua musica e la sua interpretazione vocale riesce a dare corpo e fascino pure a un testo di Mogol che non pare tra i più ispirati. Bella da cantare.

Molte altre bellissime canzoni di Battisti sono rimaste fuori da questo elenco, ma bisognava fare una scelta e io l’ho fatta seguendo le “Emozioni”. :-)

lunedì 11 dicembre 2006

L'amore in fila per sei col resto di due - La formula dell'amore 2


Ho già parlato a lungo della formula dell’amore e quindi è ora che la spiattelli qui sul blog senza tanti altri fronzoli.
Alcune precisazioni tuttavia sono dovute. Prima di tutto, in alcuni punti ho dovuto semplificare la formula per evitare che diventasse troppo complessa, al limite del tortuoso se non del cervellotico. Le semplificazioni rendono la mia rappresentazione simbolica dell’amore più comprensibile, ma forse meno precisa di quanto dovrebbe essere. Nondimeno la mia equazione comunica abbastanza bene l’idea che ci siano dei parametri da rispettare nella valutazione di questo sentimento.
Le categorie prese in esame nella mia disamina sono sei, dalla prestanza fisica del partner sentimentale alle aspirazioni e alle aspettative coltivate in campo amoroso. A ciascuna categoria si assegna un voto da uno a dieci e poiché certi fattori sono più importanti di altri ai fini della determinazione dell’amore in una persona ho adottato per esse una moltiplica che mi è sembrata adeguata. L’assegnazione del voto alla categoria “f”, per la sua natura particolare, seguirà un diverso criterio.
Inoltre ho ritenuto che i fattori che contribuiscono alla nascita sentimento amoroso siano lievemente diversi a seconda del sesso dell’innamorato preso in esame. Ho quindi ritenuto di stilare due diverse formule per i maschi e per le femmine. Anche qui la precisione non è assoluta, ma vale il concetto.
Quando parlerò delle categorie citate a una a una spiegherò meglio le decisioni che ho preso. E in qualche caso presenterò anche la corretta definizione algebrica che volevo usare in origine
La formula è strutturata in modo che il punteggio massimo ottenibile sia 100, che nella mia espressione indica il massimo assoluto della felicità amorosa (punteggio che ritengo in pratica impossibile da raggiungere e forse pure pericoloso per l’equilibrio mentale del soggetto interessato).
Ecco, dunque i miei ritrovati:

Formula generale:
Amore = (3a + 5/2b + 5/2c + d + e) : f

Formula adattata al maschio:
Amore = (4a + 2b + 2c + d + e) : f

Formula adattata alla femmina:
Amore = (2a + 3b + 3c + d + e) : f

Legenda
a = Prestanza fisica del partner amoroso
b = Qualità morali e intellettive del soggetto di cui ci si innamora
c = Posizione sociale e gerarchica dello stesso
d = Simmetria sentimentale
e = Fattori emotivo-fisiologici
f = Aspirazioni e aspettative coltivate in campo amoroso.

Le qualità attrattive di cui si parla non devono essere per forza reali, basta che siano “percepite” come tali.

Specificazione finale. Gli antropologi spesso distinguono alcune fasi nel processo amoroso. Quella dell’innamoramento, cioè la fase che mette due individui a contatto e li fa sognare a occhi aperti, quella del sesso che serve a procreare e l’attaccamento, cioè lo stadio utile per l’allevamento dei figli e che quindi si sviluppa su tempi più lunghi e magari suscitando emozioni meno incendiarie ma più sicure e durature. Esistono pure casi di persone che vivono queste tre fasi con tre distinte persone, cioè individui attaccati alla propria famiglia, che provano un sentimento romantico per un certo partner e fanno sesso con un terzo individuo. Noi considereremo l’amore come un tutt’uno senza fare troppe distinzioni. Mi riservo di modificare la mia formula se mi convincessi di poterla migliorare.

sabato 9 dicembre 2006

L'ultimo boy scout - La formula dell'amore 1


Cari amici del blog, io sono un buono. Certe volte penso che dovrebbero darmi il premio come boy scout dell’anno. All’approssimarsi del Natale, poi, divento ancora più buono e sono preso dalla smania di fare regali a tutti. Ne farò anche a voi uno mica male. Cosa vi regalerò? Un panettone, il solito telefonino con videocamera, un televisore lcd? Ma no, alla larga da me una simile paccottiglia natalizia. Inoltre mi manca pure la materia verde o verdastra per i necessari acquisti. No, cari ragazzi, io vi amo e non posso tirarvi colpi così bassi. Vi donerò qualcosa che non scorderete. Cosa? Ma la formula dell’amore, no?
Sì, avete capito bene. Vi spiattellerò su queste pagine la ricetta per capire cos'è questo sentimento, quando si manifesta e perché proprio nella misura che sperimentiamo, se siamo abbastanza fortunati da sperimentare alcunché. Terrò fede finalmente alla promessa di pubblicizzare la mia scoperta, fatta nel post del 15 febbraio il cui link riporto di sotto. So già da ora che parecchie persone non saranno d’accordo con il mio modo di impostare la questione. Io vi darò una formula, opinabile quanto si vuole, ma rigorosa, che avrà un aspetto simile a un’espressione algebrica o alla rappresentazione simbolica di un processo chimico (e in verità si dovrebbe convenire che la parte chimica è preponderante nell’esplicazione di questo sentimento)… mentre la maggior parte delle persone è affezionata a un’idea romantica dell’amore, visto come un sentimento etereo e celestiale che sfugge a qualsiasi classificazione o tentativo di interpretazione razionale. Per calcolare la quantità di amore di una certa persona in un dato momento (in realtà di si potrebbe parlare perfino di un “peso” di questo sentimento che io giudico perfettamente rilevabile disponendo degli strumenti adeguati), bisognerà assegnare un valore numerico alle categorie umane che citerò di seguito. Ovviamente questa è la parte che rende più aleatoria la mia formula, perché è facile assegnare un voto sbagliato in questo campo, così come accade nel giudicare i tuffi dal trampolino o un’esibizione a corpo libero nella ginnastica artistica. Tuttavia ecco le categorie che prenderò in esame: 1. Prestanza fisica del partner amoroso (la quale comprende anche l’importante fattore dell’età), 2. Qualità morali e intellettuali del soggetto di cui si ci innamora. 3. Posizione sociale o gerarchica dello stesso (anche in campi in genere poco collegati al successo sociale come ad esempio la spiritualità o l’altruismo). 4. Simmetria sentimentale (cioè la misura in cui si viene ricambiati in amore) 5. Fattori emotivo-fisiologici ("ambientazione" emotiva del rapporto sentimentale e potenzialità fisio-endocrina dell’innamorando, cioè “cilindrata” del suo motore amoroso... sarò più chiaro in seguito). 6. Aspirazioni e aspettative nutrite in campo sentimentale dal soggetto innamorando Dedicherò un post a ciascuna delle categorie elencate, le quali non hanno tutte la stessa importanza, ma spesso devono essere interpretate a seconda della particolarità o del sesso dell’individuo preso in esame. E infine stilerò la mia rigorosa formula. A presto dall’ultimo dei boy scout. :-))

mercoledì 6 dicembre 2006

Contropreghiera


Figlio mio che sei sulla terra, perdona i miei molti peccati commessi nel crearti debole e soggetto alla sofferenza.
Perdonami per averti fatto nascere in un mondo di violenze e sopraffazioni, di guerre ed egoismi.
Perdonami per averti fatto subire la fame e le privazioni, le rinunce, le delusioni, la depressione e gli incubi vissuti da sveglio, nei campi di sterminio o nei ghetti metropolitani.
Perdonami, figlio caro, per l’alcol, gli stupefacenti e gli psicofarmaci che ti ho obbligato ad assumere per tirare avanti malgrado i dolori e le privazioni da me cagionati.

Mi pento e mi dolgo di averti indotto a meditare e spesso attuare il suicidio, di averti reso schiavo, tramite i condizionamenti che ti ho imposto alla nascita, del dio denaro, dell’avidità sfrenata, del carrierismo, della libidine e della lussuria, della vigliaccheria, dell’odio, della meschinità, dell’avere senza remore e spesso perfino del sembrare a tutti i costi ciò che non si è.
Mi pento e mi dolgo di averti fatto tanto pazzo da uccidere e da godere nel farlo.
Mi batto il petto per averti fatto soffrire tanto da bestemmiare e nominare non invano il mio sciagurato nome.
Mi batto il petto per averti dato l’autocoscienza, rivelatasi solo un artificio per autopunirti per le tue presunte inadeguatezze, e di averti obbligato a pensare che la vita, anche quando è costellata da lutti e desolazione, sia un dono.

Non sono degno di stare al tuo cospetto, figlio mio, perché ti ho messo in condizione di assistere inerme alla tua morte e soprattutto a quella, spesso lunga e dolorosa, dei tuoi cari.
Sono indegno e impuro per averti fatto conoscere la malattia, la paura del domani, l’insicurezza economica, la solitudine esistenziale, i deserti sentimentali.
Ti proclamo santo, santo, santo, e so che per ogni lacrima che ti ho indotto a versare con la mia negligenza o incapacità dovrei soffrire per ere cosmiche.
Mi inginocchio davanti a te, mia sventurata creatura, invoco umilmente il tuo perdono.
Prega per Me peccatore. Prega per questo Dio indegno che tanta infelicità ti ha dato, amen.

lunedì 4 dicembre 2006

Il Dio che raddrizza i quadri sui muri


Lasciamo perdere la questione, troppo complicata per chiunque, se l’essere supremo creatore di ogni cosa esiste. Chiediamoci invece: la presenza o meno di Dio avrebbe effetti positivi o negativi sulla nostra esistenza? O non ne avrebbe alcuno?
Esaminiamo la prima ipotesi. Dio, ossia l’Entità sofisticata che si esprime con questo nome non esiste, né è mai esistito. Noi siamo quello che siamo. Nasciamo, viviamo e moriamo. Dopodiciò sparisce ogni traccia di noi, tranne qualche rara e limitata eco avuta dalle nostre azioni o dalle nostre idee sui posteri. Polvere eravamo e polvere ritorniamo. La sola cosa che conta in questo scenario è ciò che abbiamo vissuto, sperimentato e percepito nella nostra vita. I successi, gli amori, i piaceri, le vittorie. Non c’è un’altra vita, non c’è un’altra possibilità. Ogni lasciata è persa. Se non abbiamo avuto l’amore, platonico o fisico, di una certa donna non l’avremo più. Se non abbiamo provato un certo cibo saporito, non lo assaporeremo mai più. Se non abbiamo goduto e non siamo stati felici, peggio per noi, poveri stronzi che siamo, non godremo e non saremo felici in nessuna altra occasione. Se siamo degli sconfitti, dei perdenti, non meritiamo niente, tranne forse il disprezzo e gli sputi in faccia di quelli che hanno vinto sorpassandoci nella vita.
La non esistenza di Dio, da qualunque parte la si veda, non sembra una prospettiva ricca di vantaggi per l’umanità, specie per quella parte di essa che vive sotto i talloni dei potenti o dei vincenti. (E’ vero che certi movimenti politici tentano di ridurre ingiustizie e disuguaglianze sociali, ma più di tanto non possono fare e, inoltre, in certi casi sono essi stessi portatori di ingiustizie e violenze superiori a quelle che vorrebbero correggere.)

Vediamo allora la seconda ipotesi. C’è Dio. C’è un’entità sovrannaturale (indubbiamente molto più complicata e sofisticata della presentazione fattane finora da qualsiasi religione umana) che ha presieduto alla creazione e all’evoluzione dell’universo. C’è un’intelligenza superiore che per scopi a noi ignoti ci ha concesso la possibilità di vivere e avere un’autocoscienza. Forse questa entità non ha alcun senso morale di tipo umano. Forse ci percepisce come gli esseri insignificanti che senz’altro rappresentiamo in questo e negli altri possibili universi. Probabilmente è del tutto disinteressata alle nostre guerre, agli eccidi di popoli, agli omicidi, alle violenze, alle sopraffazioni, alla sconcezza del dio denaro, all’arroganza dei potenti. Di certo deve giudicare il nostro senso etico (quello che noi esseri umani sbandieriamo spesso, ma i cui dettami quasi mai applichiamo) come una trovata bambinesca e rozza perfino per l’universo imperfetto in cui è stata concepita. Diciamo la verità, se esistesse un essere così sofisticato da poter definire Dio non agirebbe secondo il nostro metro morale. Non cercherebbe di intervenire nell’esistenza degli uomini per correggere storture o per sanare torti. Perché dovrebbe intromettersi negli affari terrestri per fermare la mano di un assassino o la pazzia di un pedofilo o di un dinamitardo? Perché dovrebbe incenerire qualche odioso (per noi, ma forse non per lui) riccastro che dilapida patrimoni in magioni miliardarie e in feste principesche a favore di rampolli debosciati del Capitale o allegri affamatori del Terzo Mondo?

Sembreremmo finiti in un vicolo cieco. Anche questa seconda ipotesi metafisica parrebbe non portarci vantaggi o costituire un lenimento per i nostri guai esistenziali. Tuttavia non è detta l’ultima: perché il Dio del nostro esempio potrebbe avere qualcosa che è perfino meglio del nostro imperfetto e opinabile senso morale. Potrebbe avere il senso dell'armonia. Dell’equilibrio, della simmetria. Perfino dell’euritmia. Potrebbe avere l’attitudine all’armonica disposizione delle cose che è ben visibile nelle sue creazioni, nella struttura dei pianeti, nella composizione delle stelle, nella perfezione delle orbite gravitazionali o nella meccanica mirabile dell’atomo. Se in effetti giudichiamo l’Essere Supremo dalle sue (ipotetiche) creazioni, questo suo senso della simmetria potrebbe essere una delle sue caratteristiche principali. Per fare un esempio scherzoso ma non troppo, Dio potrebbe assomigliare parecchio a quei fissati che raddrizzano di continuo i quadri storti sulle pareti per amore della precisione, che spostano un soprammobile di qualche millimetro per soddisfare il loro senso estetico, che si sentono male se vedono alberi di Natale con le palle e le luci disposte più da un lato che dall’altro.
Nello scenario che esaminiamo, l’entità dotata di senso di simmetria e di armonica disposizione delle cose potrebbe essere infastidita dalle evidenti sperequazioni della condizione umana. La sua predilezione verso strutture equilibrate, il suo amore per il perfetto bilanciamento dei pesi e dei contrappesi cosmici, potrebbe essere offeso dalla presenza di individui che hanno tutto e di altri che non hanno niente, di rapaci magnati depredatori dei consimili e di disgraziati presi a pesci in faccia dal primo all’ultimo respiro. E questo singolare amante degli equilibri e dei contrappesi potrebbe essere tentato di rimettere a posto, vedendolo storto e appeso male, il quadro dell’umanità. Magari concedendo agli esseri umani una seconda vita, di natura diversa da quella sperimentata sulla terra, una vita destinata a soddisfare il suo senso della simmetria, la sua euritmia creatrice. Una seconda vita in cui i poveri e i deboli abbiano molto e quelli che hanno avuto e goduto assaporino mancanza e sofferenza. Un’esistenza di divini calci in culo ai distributori di calci in culo e di sovrumane carezze per i tanti disperati di questo mondo.
Non ho mai capito perché i propugnatori della giustizia e dell’eguaglianza sociale (come per esempio certi ambienti progressisti) spesso avversino l’idea di Dio, cioè dell’unica entità che - con il qui ipotizzato senso di simmetria e i suoi potenti mezzi sovrannaturali - potrebbe dare il giusto a ogni uomo. Capisco che affidarsi troppo al Cielo può impedire di lottare a sufficienza in questa vita, però a chiunque dovrebbe risultare evidente che l’unica società utopica è quella realizzabile da un essere non di questo mondo.

mercoledì 29 novembre 2006

Sentire Dio per strada


Ieri sera fa camminavo per strada e riflettevo. Erano i soliti pensieri banali che accompagnano la mia esistenza, e forse quella di tanti altri. Un po’ di insoddisfazione per come vanno le cose, qualche fantasia su personaggi femminili incontrati per strada o conosciuti sul blog, le immancabili suggestioni natalizie scatenate da cartelloni pubblicitari o insegne luminose in anticipo sui tempi.

Quando ecco che a un tratto sono stato preso da un pensiero improvviso e soprattutto sorprendente. Era un pensiero nitido, chiarissimo. Lo sentivo proprio espandersi nella mente senza incontrare ostacoli di sorta e soprattutto senza essere intorbidito da nebbie cerebrali.
Nei brevi momenti in cui sperimentavo queste sensazioni mi chiedevo se Dio esiste. Però non me lo chiedevo a livello filosofico. Non cercavo di accumulare nella mente prove a favore o contro questa ipotesi. In quegli attimi non pensavo alle teorie scientifiche o agli assiomi religiosi che argomentano sulla presenza o meno dell’Entità Suprema. Niente di tutto ciò. Mi è accaduto semplicemente di guardarmi in giro, di osservare i palazzi, la strada percorsa da macchine frenetiche, il cielo scuro, i tanti passanti sconosciuti che mi incrociavano sbirciandomi per un attimo, mi è accaduto perfino di guardare l’aria densa e giallognola sospesa tra due lampioni stradali… e di chiedermi: Dio è qui? E’ in questo posto? E’ nell’aria intorno a me? In queste molecole che mi circondano? Nello spazio tra questi palazzi, nei carrelli di quel supermercato? E’ qui, Dio? E’ intorno all’insegna di quel Blockbuster che vende usato garantito a quattro e novantanove? E se fosse così vicino da poterlo perfino toccare?
Erano pensieri tanto strani che mi chiedevo se ero io a farmeli o un altro. Mi sembrava quasi di essere in un posto diverso da quello che percorrevo di solito. Mi sono fatto quella domanda solo per pochi secondi, ma con un’intensità che ha stupito me per primo. Ricordo di aver alzato pure la testa per guardare le sommità dei palazzi. Non so perché l’ho fatto. Ma so cosa mi chiedevo in quel momento.
Il tempo di fare pochi passi, che mi è passato tutto. La domanda era sparita, semplicemente non esisteva più. Mi sono detto che Dio non c’era, non era presente intorno a me. Niente di ciò che sarebbe successo in seguito sarebbe stato influenzato da volontà sovrumane. Forse un’automobile avrebbe sbandato mettendo sotto me o qualcun altro e ciò sarebbe dipeso dalla pura casualità. Forse un tizio strambo che passava di lì avrebbe dato fuori di matto sparando sulla folla… e anche questo sarebbe stato un evento del tutto fortuito. Mi sono detto che intorno a me non percepivo la presenza di nessun Dio, ma solo del Caso. Non c’erano Entità, ma solo Probabilità. Nessun Disegno, nessun Progetto, Niente.
Eppure mi sono sentito strano in quei brevi momenti. E' una sensazione che non scorderò.

Non sono un credente, tuttavia non mi ritengo nemmeno un ateo. Agnostico è la parola che spesso uso parlando di certi temi. In ogni modo mi pare inconcepibile che io sia qui a disquisire di queste cose. Come ho detto in un vecchio commento noi non dovremmo essere qui. La condizione naturale delle cose o dell’universo, per così dire, dovrebbe essere il nulla, il non essere. Anche l’esistenza di un solo atomo è uno schiaffo a qualunque logica.

lunedì 27 novembre 2006

Il blillante e onolevole agente lettelalio 3


Parte terza: l'incontro - Mr Livingstone, I presume?

Ovviamente arrivo alla stazione Termini in netto anticipo. È imperativo non partire con il piede falso arrivando magari tardi all'appuntamento. Mi posiziono davanti al bar dalla caratteristica insegna e cerco di non sembrare un terrorista kamikaze in attesa dell'orario di punta. Una commessa del MacDonald's mi guata con sospetto, e io le faccio l'occhiolino, gesto che mai avrei concepito in uno stato d'animo normale. Si avvicina l'orario prestabilito. Fisso tutti i signori con aspetto da professionisti intelligenti, gente che si situi a mezza strada tra uno psichiatra della scuola di Jung e un frequentatore di salotti letterari esclusivi. Cerco con gli occhi un personaggio ben piantato, alto, vestito magari con un trence londinese accoppiato a una giacca di tweed, con l'alito che profuma di tabacco da pipa dello Yorkshire, il quale mi interpelli più o meno con un "Mr Livingstone, I presume?". Un paio di signori simili alle mie aspettative mi sfilano accanto senza degnarmi di uno sguardo. Quindi mi sento tirare per un gomito: "Lei deve essere la persona che aspettavo". Dio mio, eccolo qui! Trasecolo, boccheggio. Davanti a me c'è un ometto che avrà cinquant'anni e ne dimostra perlomeno settanta [dirò poi la reale età di questo signore NdR]. Barba all'agitatore politico ottocentesco. Pantaloni e giacca di jeans consunti, aria sfatta da barbone, spallucce da riformato alla visita di leva e una vocina sgradevole più acuta di quella che serve per cantare "Anima mia". Penso a un errore, ma il barbone, l'accattone, dimostra di conoscermi. È lui, è l'agente letterario. Mi servono due o tre buoni minuti, ma mi riprendo. Quest'incontro inizia in modo inusuale, mi dico, ma dopotutto quella poca cura per l'aspetto fisico è senz'altro una qualità. Dimostra che il mio interlocutore basa le sue fortune professionali su competenza e capacità.

Il tempo di uscire dalla stazione, sotto il bel sole di Roma, ed ecco un nuova sorpresa. Il mio interlocutore mi mostra il suo mezzo di locomozione. E' forse una fuoriserie di quelle che nella pubblicità preferisci a una Miss Italia? E' una fiammante berlina cinque porte ancora in garanzia? E' una utilitaria vecchiotta ma dignitosa che fa ancora il suo lavoro alla grande? Niente di tutto questo. Il suo mezzo di locomozione è un ciclomotore vecchio di almeno trent'anni, una specie di Ciao della Piaggio che sarebbe stato considerato un catorcio ai tempi in cui Ronald Reagan faceva l'attore. Il potente mezzo di trasporto è assicurato a un palo metallico con una catena enorme, che con tutta evidenza ha il compito di dissuadere i ladri dall'impadronirsi di quel gioiello della meccanica. Il grande agente letterario, mandandomi un po' di forfora sulle scarpe, mi informa che a circa quattrocento metri c'è una grande libreria romana, la Mel Books, fornita di bar. Per un attimo avvampo di vergogna, temo che mi chieda di salire sul risicato sedile posteriore del suo catorcio per condurmi alla nostra nuova destinazione. Però il destino ha pietà di me. Il barbone, cioè l'agente letterario, mi spiega che il suo ciclomotore non può portarci tutti e due (bella forza, c'e da chiedersi come riesca a reggere una sola persona pur denutrita come il mio interlocutore) e mi chiede se posso raggiungere a piedi la libreria. Sollevato dalla gogna evitata, scatto deciso a stargli alle costole.

Ecco finalmente il bar della Mel Books. Arrivano i caffè al nostro tavolino e parliamo. I nuovi complimenti per quanto ho scritto e la previsione della mia imminente e luminosa carriera letteraria mi fanno scordare il look da barbone, la vocetta da Cugini di Campagna e perfino il ferrovecchio a due ruote, che forse ho solo immaginato. A un tratto noto che ho bevuto il mio caffè da un pezzo e che il mio interlocutore il suo non l'ha ancora toccato. L'agente letterario intanto ha superato la fase dei complimenti e del suo proposito di riprendere il romanzo nel cassetto. Ora mi spiega che lui viaggia molto. Adora farlo. Con la sua ragazza (ragazza? ma non aveva settant'anni?) è stato in Sicilia, Abruzzo, Veneto, dappertutto. Ama l'Italia, per lui è la nazione più bella del mondo. Spesso, mi dice en passant, lo ospitano gli scrittori che hanno contatti con la sua agenzia letteraria. L'ultima volta è stato due settimane in provincia di Catania, a casa di uno scrittore gran compagnone. Ah, loro due con le rispettive ragazze hanno passato un periodo straordinario! Purtroppo non è mai stato a Napoli, dice con rammarico. Mi guarda come se dovessi capire qualcosa, ma io non capisco un bel niente. Allora lui spiega che splendido posto è la Città del Sole e che gente unica la abita, sono davvero fortunato a vivere lì. Ancora un suo sguardo, ma la mia faccia da ebete non vuole saperne di schiarirsi. A proposito di Napoli, continua allora l'agente letterario, lui progetta di andarci in quel periodo, forse addirittura il mese prossimo. Mi fissa ancora una volta, e a questo punto anche un individuo ritardato come me crede di afferrare qualcosa. Tossendo imbarazzato, gli dico che purtroppo non posso ospitarlo. Passo almeno due minuti a scusarmi di quella fatalità. L'agente letterario mi assicura che non c'è niente da scusarsi, lui (anche se poco ci mancava che si invitasse da solo a casa mia) non aveva affatto considerato questa eventualità. E' il momento della consegna dei preziosi manoscritti con cui voglio fare colpo. Il mio interlocutore a malapena li guarda, anche se giura che li leggerà con la massima attenzione.

Il suo caffè intanto è ancora lì, anche se io devo aver finito il mio da ore. Perché diavolo uno ordina un caffè se poi non vuole berlo? Capisco tutto quando passa un barista che ci guarda in cagnesco mentre porta via le tazze vuote da un tavolo vicino, subito occupato da clienti in attesa. Ho una rivelazione. Se l'agente letterario avesse bevuto il caffè, il barista avrebbe portato via le tazze vuote, il che ci avrebbe costretto o ad andarcene (e magari a continuare la conversazione seduti su un marciapiede romano) o a compiere una scelta che il mio conoscente sembrava considerare anche peggiore, cioè fare una nuova ordinazione. L'impazienza dei baristi nei nostri confronti ormai è palese; sbattono le posate nei pressi del nostro tavolo e ci indirizzano frasi derisorie sempre meno dissimulate. A un certo punto anche un individuo dalla strenua resistenza come il grande agente letterario deve cedere agli attacchi ormai frontali e beve il caffè a più di due ore dalla sua consegna. Non accenna neppure a fare una nuova ordinazione. Il caffè è finito e dunque è finita pure la nostra conversazione. Ci avviciniamo alla cassa. Mi dice che offre lui. Giura che è suo dovere e che non vuole sentire proteste da parte mia. Ma al momento di tirare fuori i soldi è preso da amnesia. Non trova il portafogli. Divento un peperone mentre si rovista in tasca sotto lo sguardo scettico della cassiera, che dà l'idea di conoscere il tipo. Non resisto alla vergogna. Pago la cassiera e me la filo a spron battuto inseguito dalle ironie dei baristi poco distanti. Il mio nuovo conoscente ha una faccia di bronzo che non fa una piega. Dice che l'ho offeso pagando al suo posto. In ogni caso la prossima volta offrirà lui, su questo non ci piove. Delle volte sono un ingenuo senza speranza, è vero. Eppure, mentre usciamo dalla Mel Books e ci avviamo al catorcio potentemente assicurato a un lampione, anch'io ho ormai capito che non ci sarà mai una prossima volta in quell'individuo pagherà qualcosa a qualcuno. Mentre saluto il grande agente letterario che mi ha indotto a cantare di "cavigliere del Kathakali" o dei "danzatori bulgari a piedi nudi sui bracieri ardenti", penso alle parole di Giorgio Chinaglia e al suo pessimismo leopardiano sul mondo e su chi lo abita.

mercoledì 22 novembre 2006

Il blillante e onolevole agente lettelalio 2


Cantando sotto la pioggia

Il giorno è quello di alcuni anni fa. Ho mandato il mio romanzo a un po’ di case editrici illudendomi che il lavoro preparatorio mi abbia guidato verso le sedi e le persone interessate a esaminare il mio lavoro. Però stavolta decido di tentare una strada nuova.
Esistono pure gli agenti letterari, no? rifletto. E gli agenti letterari, da quel poco che si sente in giro, sembrano appartenere a una razza di eletti dotata del potere di farti pubblicare e avere successo. Occhei, mi dico, vediamo cosa ne pensa questa razza sovrumana del mio romanzo. Mi tuffo in una rapida ricerca su internet per eliminare le agenzie letterarie a pagamento: quelle del tipo “mi paghi duecento cocuzze per ogni cento pagine che fingo di leggerti”. Quindi ecco qui. Ho l’agenzia che fa al mio caso. Importante. Conosciuta. Stimata perfino. Con noti scrittori tra i suoi clienti. E non prende soldi per leggere il tuo lavoro. E’ lei, non ci sono dubbi. Se fosse una donna, me la sposerei su due piedi. Una telefonata per accertarmi che è tutto oro quello che luccica e via, mando il romanzo.

Sono passati sei mesi. E’ vero che il tempo vola, ma tutto questo tempo senza risposte non mi induce all’ottimismo. Ho perso le speranze, ma tanto per curiosità faccio una telefonata. “Che ne avete fatto del mio romanzo?” dico all’agente letterario che ho la ventura di contattare.
“Quale romanzo?” risponde. “Qui non è arrivato niente di suo.”
“Guardi”, dico io, “magari non vi è piaciuto, ma arrivare è arrivato. Ho anche la ricevuta di ritorno della raccomandata.”
“Io non ho trovato niente, ma aspetti qualche giorno che faccio una ricerca.” Il mio interlocutore parla come se i vasti locali della sua agenzia fossero invasi dagli scritti di tutto il mondo.
Accetto di buon grado. D’altronde che altro posso fare? Faccio ancora un paio di telefonate, distanziate da alcune settimane per non farmi la nomea di rompiscatole (nonostante la mia scarsa esperienza editoriale ho già capito che in certi ambienti devi muoverti in punta di piedi come Harvey il maggiordomo di Elisabetta).
Alla terza o quarta telefonata, il colpo di scena. Che dico colpo di scena. Il terremoto. Lo tsunami, il maremoto, l’onda anomala, la potente scossa tellurica che cambia la struttura stessa del pianeta. L’agente letterario dice che ha trovato il mio romanzo dopo laboriosa ricerca. Non solo, ma l’ha pure letto tutto. Non solo, ma gli è pure piaciuto senza remore. E’ rimasto conquistato dal mio stile. Lo ha letto tutto d’un fiato. Infine l’affondo che minaccia di uccidermi: giura che fatto le ore piccole a casa sua perché non riusciva a staccare gli occhi dalla mia prosa. Voleva sapere come andava a finire.
Fulminato, non riesco a spiccicare parola. Penso a uno scherzo, ma il mio interlocutore è serio. Dice che ho talento. Talento, che stupenda parola! Non solo, ma ho anche le potenzialità per vendere bene. Certo bisogna correggere alcune cose che non vanno, dare una ritoccatina al finale, ma il grosso del romanzo va a meraviglia. Muto, rimango pietrificato con il telefono in mano, più o meno nella stessa posizione e con lo stesso eloquio dell’unica volta che ebbi il coraggio di chiamare a casa Giovanna detta Vanna, ossia la più bella e impossibile ragazza della mia classe al liceo.

Seguono altre telefonate. Il molto onorevole agente letterario non cambia versione ed è prodigo di elogi. Passo il tempo per le strade del mio quartiere cantando a tutta voce (quando piove e penso che nessuno mi veda) “Voglio vederti danzare” di Battiato. Cantare Battiato va bene, mi dico a un certo punto, ma qualche informazione aggiuntiva sull’agenzia letteraria non guasta. Nuova ricerca con Google. I risultati sono ottimi. Su internet è descritta come agenzia letteraria seria, con molte succursali in Europa, Sudamerica e altrove. E’ roba grossa. Però non mi basta ancora. Sarò anche pignolo da fare schifo, ma faccio un’ultima indagine. Vado nella più grossa libreria napoletana, la Guida, che guarda caso è anche una casa editrice di un certo nome. Mi vergogno non poco, ma faccio le domande che mi sono preparato. Una gentile direttrice editoriale mi dice di dormire sonni tranquilli. L’agenzia di cui parlo è simbolo di serietà e competenza. Anche la casa editrice della grande libreria ha numerosi e proficui rapporti con essa. Anzi, sapendo che l’agenzia mi ha proposto un contratto editoriale pluriennale, la mia interlocutrice si complimenta con me come se fossi già uno scrittore di best-seller e non un pinco pallino che non ha mai visto in faccia un editore degno di questo nome. Ho sentito abbastanza. Non ho più dubbi. L’attesa maledetta è finita. Faccio uno sforzo immane per non mettermi a cantare “Cuccurucucù Paloma" nella libreria.
Prendiamo un appuntamento, dico io e il grande agente letterario che con lo schiocco di due dita può fare la tua fortuna. L’appuntamento è un po’ strano. Non in uno studio elegante con poltrone che odorano di successi letterari, ma alla stazione Termini di Roma. Per la precisione davanti a un bar che ha l’insegna fatta in un certo modo e che confina con un MacDonald’s. Niente di male. L'appuntamento originale darà un profumo di avventura alla mia trionfale entrata nel regno della letteratura.

Continua nella prossima e conclusiva puntata.

lunedì 20 novembre 2006

Cercasi giovane schiava disperatamente


Allora, come la vogliamo? Bella, certo, e chi dice di no. Con le curve al posto giusto, anche questo era scontato. Facciamo un modello Marilyn Monroe? No, non ha capito, non mi riferivo al suo classico 90-60-90, bensì al rapporto fianchi, vita, seno. Le dimensioni le possiamo pure diminuire, se lei è d’accordo, ma le proporzioni tra queste regioni anatomiche devono essere preferibilmente di due (la vita) a tre (i fianchi e il seno). Bene, vedo che conviene sulla questione. Definiamo dopo i dettagli, non c’è fretta, comunque le anticipo che il modello 80/85 va che è una bellezza.
Ora però affrontiamo un tema piuttosto delicato. Va bene dell’età che le mostro? Come dice? La vuole più giovane? Certo, comprendo perfettamente il suo desiderio, una donna giovane, smaaack, è una cosa più meravigliosa di tutte e Sette le antiche Meraviglie. Vediamo, forse sarà interessato a questa fascia generazionale. Ecco, fresca, sbarazzina, spumeggiante. Ancora non ci siamo? Dice che dobbiamo scendere un pochino con l’età? Niente paura, abbiamo vasti argomenti in questo settore. Questo è di certo ciò che sta cercando. Dovrà riconoscere che è abbastanza giovane anche per lei, un gioiello. Vedo che annuisce.
Mi faccia riflettere un attimo. Ora verrebbe il profilo psicologico. E’ una cosa importante come e in certi casi più dell’avvenenza fisica, ma non devo spiegarlo a una persona sagace come lei. Ci mettiamo un po’ di pepe e la scegliamo intraprendente e dotata di una buona conversazione? Come dice? Non sa che farsene del pepe e men che meno della conversazione? Dice che per conversare le bastano e avanzano le lunghe chiacchierate fatte con il suo cane Fido quando lo porta a fare la cacca la sera? Se pepata non le piace, possiamo deragliare verso il modello casalinga senza grilli per la testa. Nemmeno casalinga la vuole? Pensa che prima o poi tutte le casalinghe diventino disperate come nella nota serie televisive e che, se non ti riempiono di corna con qualche bellimbusto di internet, un giorno ti faranno ammattire con la loro petulanza? In effetti devo riconoscere che il suo ragionamento non è del tutto infondato. Allora, guardi cosa le propongo. Questo è proprio ciò che fa per lei. Il modello “a schiava”. Niente scatole rotte, nessuna voglia di polemizzare, nessuna ambizione di contestare la sua autorità ed egemonia nella coppia. Dato che questo articolo è molto richiesto, possiamo offrirle la suddetta tipologia umana in alcune varianti. Osservi pure con calma. Ecco, ilota, no, che ha capito? Non le ho detto idiota, ma ilota, come uno schiavo dell’antica Sparta, è uno dei modelli che le proponiamo. Poi abbiamo l’esemplare giovane schiava romana, la serva della gleba merovingia e infine l’indefessa lavoratrice da piantagione di cotone virginiana. Su richiesta, possiamo anche sottoporle altre tipologie non comprese nel catalogo. Ottimo, mi compiaccio per la sua scelta, anch’io reputo che il modello giovane serva della gleba andrà benissimo per lei e la renderà pienamente soddisfatto.
E ora diamo l’ultimo tocco a questa fresca e procace schiava d’alcova. La preferisce intelligente, spiritosa, riflessiva? Come? Non potrebbe fregargliene di meno di una donna intelligente? E l’unica cosa spiritosa che si aspetta da lei è starsene zitta pure a letto quando, come dire, lei la strapazza per bene? Oca, allora? Che rida sempre, anche a sproposito? Che rida facendola sentire un grande umorista anche se l’ultima sua battuta degna di questo nome l’ha fatta in quinta elementare? Certo, capisco la sua scelta. Barri pure la casella in basso alla sua sinistra. Bene, abbiamo finito con il questionario, grazie per aver collaborato al nostro sondaggio intitolato “Scegli la donna ideale del terzo millennio con cui vorresti dividere la vita”.

Di recente ho letto un sondaggio sugli elementi considerati attraenti nell’altro sesso. Non era un'indagine scientifica, ma comunque dava risultati interessanti. Al di là della dolcezza e della gentilezza che entrambi i sessi considerano prerequisiti indispensabili per iniziare un rapporto interpersonale, le risposte divergevano su alcuni punti qualificanti. Gli uomini preferivano una partner pacata e femminile (cioè che non mettesse in discussione la loro egemonia nella coppia), non situavano l’intelligenza in cima alle loro preferenze e mostravano una chiara inclinazione verso partner giovani. Le donne d’altra parte segnalavano caratteristiche come l’intelligenza, il senso dell’umorismo (molto gettonato), e la condizione economica o sociale. Le interrogate femminili palesavano un’attrazione anche per maschi più maturi, purché con una solida posizione sociale o patrimoniale (è noto che i principi azzurri non sono morti di fame). Naturalmente esistono delle ragioni biologiche per queste diverse priorità nel modo di considerare attraente un partner (esse sono frutto delle diverse strategie sessuali adottate nel corso dell’evoluzione dall’uomo e dalla donna, e forse un giorno arriveremo a parlare di questo punto). Poi è chiaro che ci sono grosse differenze percettive all’interno di entrambi i campi sessuali.

mercoledì 15 novembre 2006

Capitana, Mia Capitana


- Ragazzi, basta con la scuola nozionistica e antidiluviana a cui siete abituati. So che sono solo una supplente, ma credo di avere tempo sufficiente per liberare le vostre menti e insegnarvi a pensare da uomini. Da oggi si cambia registro. Il nostro scopo non sarà memorizzare a pappagallo vuote date storiche o versi da recitare con l’affabulazione gigionesca di un Gassman. Con il mio contributo, vi sbarazzerete degli orpelli tipici di questo obsoleto e reazionario sistema scolastico. Darete sfogo alle grandi potenzialità rinchiuse nei vostri giovani cervelli. E coglierete l’attimo fuggente, succhierete il midollo stesso della vita.
“Nelle mie ore di lezione partiremo da un solido concetto. L’uomo è niente senza poesia. La poesia, e la nostra capacità di crearla e apprezzarla, è ciò che ci rende esseri speciali su questa terra. Certo la medicina e l’avvocatura sono professioni rispettabili e utili alla società, ma cosa sarebbe l’uomo senza la sua aspirazione al bello? Voglio che apriate il libro di testo portandovi sull’introduzione scritta dall’esimio professor Petronio. Ci siete? Strappate l’introduzione del vostro testo letterario. Forza, non abbiate paura. Anzi, buttate pure i vostri libri di testo. Ora passo per i banchi con il cestino della carta straccia e voi ci ficcherete dentro il vostro antiquato e retorico mattone di letteratura italiana.”

- Bene, ora possiamo procedere con la nostra lezione. Qualcuno di voi sa dirmi che cos’è il barbarico YAWP?... Bravi, vedo che conoscete Walt Whitman. Ma l’importante non è conoscere il significato di certe parole, bensì viverle, penetrarne l’essenza profonda. Per esempio, tu del secondo banco, sì, dico a te, robusto e ben piantato, come ti chiami?
- I-iiiiio, s… signora p-pro-professoressa?
- Non essere così ingessato e formale, l’imbarazzo fa parte della scuola accademica e nozionistica che ci siamo lasciati alle spalle.
- Pe-Pe-Persichetti. Pe… Persichetti Giuseppe.
- Allora, Persichetti, sapresti farmi un barbarico YAWP che risuona sopra i tetti del mondo come se lo emettesse il Grande Poeta?
- U-uuuu… u-uun ba-ba-barbarico… ?
- Certo, non essere timido. Fammi uno YAWP che renderebbe orgoglioso il vecchio Walt.
- Ii-iii…eummmmmm….hhmmmm.
- No, ma che fai? Quello sembrava lo squittio di un topo, non aveva niente di barbarico. Il tuo deve essere un grido di liberazione. Un rombo che sorvola le guglie dei più alti grattacieli.
- Non ssss-ssssooo se ne sono caaaaaaaa… aaaaaaapppp….
- Aspetta, Persichetti, ti aiuto a entrare nel lirismo di Whitman. A cosa ti serve la tua vecchia insegnante, se non ti soccorre nei momenti di difficoltà?
- Ccccccoooooo…. C-c-ccoooossssssssa fa, p-professoressa?
- Niente, ti slaccio la cintura e ti tiro giù i pantaloni non vedi? A proposito, che cosce muscolose hai, Persichetti! Fai sport, vero? Mmmmm. Come sono sode! Ora voglio che sentir crescere dentro il tuo stomaco il barbarico YAWP. Ci sei?
- P-p-p-pe… peeeerché mi tira giù le m-mm-mmm… uuuuuhhh.... le muuuuuu... tande, p-professoressa?
- Non ti formalizzare su questi decadenti pudori da borghesia accidiosa. Come vogliamo fondare un mondo emancipato se ci facciamo soggiogare ancora da frusti vassallaggi bigotti? Rilassati, sennò il resto della classe non può seguire la lezione. Allora, lo senti crescere il grido di sdegno? Lo senti ingrossarsi?
- Ssssss-ssssss.... ssssiiiignora p-p-p-p-p-rrooooffffff.... se lei lo tocca in qu-cucù… in qu-cucù-uuuel modo è chiaro che creeeeesce…
- Non essere così teso, è tutto sotto controllo, Persichetti, non farti fuorviare dalle ipocrisie della scuola reazionaria. Però come sei dotato, complimenti. Allora, fa crescere un indignato YAWP dentro di te. Lo senti che si gonfia? Non riesci più a contenerlo, tra poco vorrai liberarlo senza freni.
- La prego, no-non lo prenda in booooo... in booooo… in bo-bobò… in bobò… ccaaaaaaa.
- Fallo, fammelo adesso. Libera il tuo sdegno titanico contro le ingiustizie, fustiga ogni moralismo e grettezza.
- La s-ssssss… scongiuro di stare attenta co-cocò… cocò… attenta cocò… popò popò… povero me… coon quella liiinguaaaaaaahhhhhhh.
- Fammi il barbarico grido di Whitman! Falllo ora!
- Sss… s-coooopppioooo. Tooolga la b-bbbb… tolga la b-bbbbbb... tolga la booooocaaaaaaaa.
- Libera ora il tuo animo poetico! Grida, fallo adesso Fallo!
- YYYYYYYYYYAAAAAAAAAAAAWWWWWWWWPPPPPPPPPPPPPP!!!!!!!!!!!!!!!!!

Pare che la superstar del momento, ossia la supplente di matematica di Nova Milanese, impartisse lezioni agli studenti con il suddetto metodo educativo. Risulta inoltre che, quando la valorosa insegnante è stata proditoriamente costretta ad abbandonare la scuola dal bigottismo imperante, gli allievi siano balzati in piedi sui banchi e, con i pantaloni abbassati e gli inguini eretti e fieri, abbiano gridato commossi: “Capitana, Mia Capitana!”.