domenica 28 gennaio 2018

Preghiera di un dio depresso


È seduto due file davanti a me nel vagone della metropolitana e guarda una vecchia dall’aria malata come se si aspettasse o meglio desiderasse che morisse da un momento all’altro. È inquietante l’avidità con cui fissa la vecchia come se volesse evocarne la morte. Muori, muori, dicono i suoi occhi cattivi, muori ora, fammi questo favore. Eppure nessuno degli altri viaggiatori sembra fare caso a quello strano passeggero. Come è fatto? Niente di che. Uno qualunque. È vestito come uno dei mille pendolari cittadini. Potrebbe avere qualsiasi età da trenta a cinquanta. Ha una cineseria di borsello a tracolla e a volte si infila un paio di scadenti cuffie musicali probabilmente sgraffignate a qualche Black Friday. Se ne sta sempre sulle sue. Non parla e non sorride mai. Cioè non sorride mai tranne quando si trova vicino a qualcuno che sta per morire. Come la vecchia che osserva.
Vorrei alzarmi in piedi e denunciarlo. Vorrei dire che in questo vagone della metropolitana si nasconde un mostro. Magari un serial killer. Uno che forse ha ucciso decine di persone. Non ne ho il coraggio. Non ho prove e nessuno crederebbe a una storia tanto assurda. Non posso fare niente, ma nemmeno lui può fare niente, perché non può certo uccidere l’anziana passeggera in pieno orario di punta serale.

Aspetto e aspetta anche lui. Ho già deciso che lo seguirò come ho fatto altre volte. Forse stavolta sarò più fortunato. Forse lo coglierò a compiere uno dei suoi crimini e potrò finalmente denunciarlo e fermarlo. Devo stare attento perché il finto pendolare è un uomo inquietante, pericoloso. A volte, passandogli accanto, si percepisce una potenza malefica emanare da lui.
Ecco, ha deciso di scendere. Lo seguo fuori dalla fermata della metropolitana badando a tenermi a distanza. Per fortuna non è un tipo sospettoso o forse è uno di quelli che si credono intoccabili.
Lo seguo in una strada principale piena di luminarie e boutique eleganti e quindi lo vedo infilarsi in una rete di vicoli del centro storico. Già so quello che capiterà, perché l’uomo che seguo ha la particolarità di trovarsi prima o poi vicino a qualcuno che sta morendo. Una volta l’ho visto inginocchiato davanti a un uomo investito da un’auto. L’uomo era pieno di sangue e lui gli teneva le mani e lo osservava morire con aria compiaciuta. Si è dileguato prima dell’arrivo dell’ambulanza e nessuno l’ha notato. Tranne me, si sa. Un’altra volta l’ho visto accanto a un ragazzo vittima di una sparatoria. Ha detto pure qualcosa al giovane morente, ma ero troppo lontano per poterlo sentire. Non se ne è andato finché il ragazzo non ha esalato l’ultimo respiro. Poi l’ho visto anche nei dintorni di una signora con la testa fracassata da un pezzo di cornicione. Era in prima fila nella folla dei curiosi a bearsi dello spettacolo della sua morte. Un mostro, l’ho detto. Non l’ho mai visto uccidere nessuno di persona, ma sono certo che sia coinvolto in tutte le morti in cui si è imbattuto.
Maledizione, mi sono distratto e l’ho perso di vista. Mi trovo in quella parte della città dove circolano solo motorini e gli abitanti dei vicoli ti guardano scontrosi come se tu invadessi un territorio proibito. Percorro alcune stradine pensando di averlo perso e poi lo individuo di nuovo. Non mi sorprende affatto ciò che fa, perché è quello che sa fare meglio. Guarda un uomo che agonizza a terra. L’uomo è malvestito e emana un cattivo odore di liquore e vomito. Ha un’enorme squarcio sanguinante sulla testa da cui esce uno spuntone metallico. Non ho alcun dubbio su chi sia stato l’autore di quella ferita. Il finto pendolare osserva estasiato il sangue che sgorga sui ciottoli del fondo stradale. È rapito, adorante come se fosse in chiesa a pregare.
Provo uno sdegno indescrivibile. Basta, ora devo fare qualcosa. È finito il tempo di guardare. Ora bisogna agire.
Irrompo nel vicolo e ordino al mostro assassino di non muoversi. Gli dico che è in trappola. Ho scoperto il suo gioco. La sua carriera di serial killer è finita. Gli dico di non fare un gesto se non vuole pentirsene. Ho con me un lungo bastone che ho raccolto poco più in là mentre lo seguivo e lo minaccio con quello, anche se penso che potrei ridurlo all’impotenza anche a mani nude, tanto è insignificante la sua corporatura.
Per un po’ non succede niente. Il finto pendolare continua a osservare l’uomo agonizzante con un sorriso ammaliato. Dopo qualche istante vedo che solleva lo sguardo e capisco che il corpo a terra è ormai senza vita. Il barbone è morto. Lo spettacolo è finito. L’uomo mi osserva. Si rialza con lentezza. Non sembra sorpreso dalla mia presenza. Deve avermi già notato nei giorni passati nonostante la sua aria svagata. Non pare neppure impaurito. Il silenzio nel vicolo è insopportabile.
“Hai finito di uccidere gente indifesa, vigliacco”, gli urlo contro, ma la mia voce è incrinata da una nota di spavento.
Chiamo aiuto, sbraito, faccio più rumore che posso, ma non viene nessuno. Il vicolo continua a restare desolato. Strano, siamo in pieno centro. C’è sempre gente che passa di lì. Quella parte della città è attraversata da rumori di ogni tipo. Ora niente. Il mio interlocutore sorride come se il particolare non lo stupisse. Niente male, non ho bisogno di aiuto. Posso sistemare da solo quella mezza cartuccia.
Solo che ora il finto pendolare non sembra più una mezza cartuccia. Ha perso il suo aspetto anonimo e c’è qualcosa in lui che mi fa tremare. È come un vento comandato da lui che potrebbe spazzarmi via. Noto che le mie gambe vacillanti mi hanno portato così avanti che ormai non posso più fuggire. In qualche guaio mi sono cacciato?
Prometto all’uomo che lo farò arrestare per tutte le persone che ha ucciso, gli assicuro che finirà la sua vita in galera, ma le mie minacce risultano fiacche persino alle mie orecchie. Non so perché penso che nel vicolo non entrerà nessuno finché non lo deciderà lui. Sono del tutto alla sua mercé.
Quindi sento per la prima volta con chiarezza la sua voce. “Sei del tutto fuori strada”, dice. “Non mi piace uccidere le persone.”
“Però ti piace vederle morire!” ribatto ancora prima che abbia finito di parlare.
Non obietta. Non si muove. Non scappa e non mi aggredisce. Il vicolo continua a restare desolato e silenzioso, pare quasi che sia staccato dal resto della città e perfino del mondo. È come se il tempo si fosse fermato.
“Chi sei?” 
Dice una cosa del tutto senza senso: “Lo sai che una volta esistevano gli dei?”.
Non sono sicuro di aver capito bene, ma le gambe mi tremano più che mai. Mi sento fluttuare nell’aria come se fossi senza peso. Percepisco una presenza estranea che si insinua fin dentro le viscere. Il finto pendolare è vicino, mi parla, ma le sue labbra restano chiuse, come se comunicasse direttamente con la mia mente. Mi dico che è la paura a farmi immaginare tutto.
“Pensa di essere un dio antico”, sussurra la voce che mi parla nella mente. “Un tempo, migliaia e migliaia di anni fa, in qualche remota zona della Mesopotamia gli uomini ti conoscevano, ti avevano assegnato un nome esotico e ti adoravano in templi eretti in tuo nome. Poi col passare dei secoli i templi sono caduti e gli uomini ti hanno dimenticato, ma tu non hai dimenticato loro.”
Mi dico che l’uomo che mi sta davanti è del tutto pazzo, e un po’ devo esserlo anch’io perché continuo a sentirmi fluttuare in aria.
“Sei un essere speciale”, continua la bocca chiusa dell’uomo nel vicolo silenzioso. “Puoi fare un mucchio di cose straordinarie, almeno dal punto di vista degli uomini. Però c’è un dono che ti è precluso. Un miracolo che ogni giorno è concesso agli insignificanti esseri che ti adoravano migliaia di anni fa.”
Penso che la bocca chiusa continuerà a parlare, ma l’uomo si limita a indicare il barbone morto nel vicolo.
Silenzio. Per la prima volta mi chiedo se potrò mai uscire da quel vicolo che non si trova da nessuna parte. Per qualche istante non vedo più il finto pendolare e poi me lo ritrovo a pochi centimetri dalla faccia che mi trapassa con occhi spiritati. La sensazione di pericolo che mi prende è più intensa che mai. Provo il desiderio di inginocchiarmi e invocare clemenza, anche se non so bene quale sia la mia colpa.
“Tu ci invidi”, sento sussurrare dalla mia voce stupita.
Si volta e mi ignora come se avesse perso ogni interesse per me. Si accovaccia davanti al cadavere del barbone e lo accarezza con affetto. Ricompone il corpo con una delicatezza di cui non lo si sarebbe detto capace. Per un po’ mi aspetto quasi che il finto pendolare baci il cadavere come se fosse il suo figlio prediletto.
Ha le spalle voltate, ma so che la sua bocca continua a restare chiusa quando mi parla per l’ultima volta: “Lo sai che anche gli dei pregano?”.
Non so che cosa rispondere e non so neppure se sia un bene farlo.
“Sai qual è la mia preghiera?”
Risuona una risata pazza, così potente da far sussultare i ciottoli del fondo stradale e oscurare i lampioni del vicolo.

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