
Da ragazzo mi piaceva la fantascienza (mi piace tuttora quando di qualità). In realtà a un tratto mi sono accorto che non mi attraeva propriamente la fantascienza quanto l’avventura che essa regalava a piene mani nei film e nei romanzi. Le storie di fantascienza, almeno alcune di esse, erano il più grande scenario avventuroso mai immaginabile, molto superiore alla Malesia di Sandokan o al Sudafrica di Wilbur Smith. Amavo il genere catastrofico o quello delle subdole invasioni di alieni, ero poco attratto dalle storie con astronavi terrestri in giro per l’universo o con imperi galattici. Mi piacevano anche i complicatissimi messaggi extraterrestri in arrivo dallo spazio che poi lo scienziato eroe (disilluso, scettico, ma alla fine romantico, vedi il grande Luigi Vannucchi in “A come Andromeda”) doveva decrittare e difendere dalla miopia di politici e militari guerrafondai. Non amavo particolarmente le storie ambientate nel futuro o basate su macchine del tempo, con le dovute eccezioni. Le situazioni in cui sguazzavo di più erano quelle catastrofiche o per meglio dire di sopravvivenza, tipo che sei alla fine del mondo e, in una società senza una parvenza di legalità, devi fare le scorte alimentari nei supermercati superando l'opposizione di biechi individui dal grilletto facile e conquistare una ragazza, quella carina e piena di sentimento che mai potresti avvicinare in un mondo normale e funzionante.
Sempre da ragazzo avevo elaborato una speciale classifica sui miei tre preferiti romanzi di fantascienza. Al primo posto L’invasione degli ultracorpi, di Jack Finney: gli alieni si sostituiscono agli umani replicandone il corpo con tutti i ricordi, ma qualcuno si accorge di piccole differenze di comportamento nei finti umani. Il giorno dei trifidi, di John Windham, gli uomini diventano tutti ciechi tranne pochi privilegiati, che nel caos generale se la devono sbrogliare con i trifidi, organismi vegetali alieni che sparano aculei mortali e si nutrono di sangue. Il villaggio dei dannati, sempre di John Windham, in un villaggio inglese rimasto isolato e incosciente per un certo periodo di tempo le donne danno alla luce inquietanti bambini con gli occhi d’oro.
Ero stregato dall’Invasione degli Ultracorpi soprattutto perché oltre ad avventura, fantascienza, mistero, aveva una formidabile ambientazione noir che mi faceva ricordare i film americani degli anni Quaranta, quelli in forte bianco e nero con uomini con vestiti e cappelli alla investigatore Marlowe e donne briose alla Ginger Rogers. Mi immaginavo il protagonista del romanzo, il dottor Miles Bennell, con la faccia di Humphrey Bogart, anche se sapevo che Bogart non aveva nulla a che fare con la fantascienza e i dottori (una volta aveva interpretato un prete, ma solo sotto mentite spoglie). La parte che mi ipnotizzò è quando sembra cambiata ogni pietra e strada della città teatro del romanzo solo perché sono cambiati gli abitanti. Oggi non so se mi piacerebbe ancora quella storia, soprattutto non so se crederei ancora ciecamente al suo presupposto, e cioè che gli uomini hanno cuore e sentimento, si innamorano, sono generosi, apprezzano cose come la poesia e l’arte ed è proprio per quelle nobili caratteristiche che puoi distinguerli da gelidi e spietati alieni venuti dallo spazio per sostituirsi a loro. Nella mia vita ho visto un mucchio di persone gelide (con le dovute eccezioni), un numero ancora maggiore di persone spietate (con altre eccezioni), e quando queste persone provavano emozioni e sentimenti avevi sempre l’impressione che ciò fosse collegato a un qualche loro vantaggio personale. Domanda: come si fa a distinguere questi uomini dagli Ultracorpi del romanzo? Gli si dà da leggere “essere o non essere, questo è il problema” e si osservano le loro reazioni? Ma se si annoiano sia l’uomo che l’alieno, come la mettiamo? Delle volte mi viene da pensare che l’invasione aliena già ci sia stata e che nessuno se ne sia accorto.