lunedì 30 aprile 2007

Il commento sciocchino che ti fa dir perdinci


In verità questo post avrebbe dovuto intitolarsi “Il commento cretino che ti fa incazzare di brutto”. Ma poi ho deciso che un titolo siffatto mi avrebbe presentato in una veste troppo severa e accigliata. Quindi mi sforzerò di usare in questo post i termini sciocchino, sballato e simili al posto del più adeguato appellativo di cretino.
La prima cosa da dire è che noi tutti sul blog siamo esseri umani e quindi come tali soggetti a sbagliare. A tutti sarà capitato di rilasciare commenti non particolarmente adeguati, in qualche caso persino fiacchi o sconclusionati. Dopotutto non siamo sempre al massimo della forma, a volte ci alziamo dal letto con le occhiaie, abbiamo avuto l’influenza o il mal di denti, siamo nervosi, ci hanno lasciato moglie, fidanzate e amanti (magari tutte e tre le categorie donnesche nello stesso momento), oppure non riusciamo ad avere una maledetta esenzione dal ticket sanitario a cui riteniamo di avere diritto come pochi individui in questa nazione. Io stesso devo aver rilasciato una quantità di commenti sballati nel senso qui inteso. Basta fare un semplice calcolo. Sono sul blog da diverso tempo e stimo di aver scritto non meno di cinquemila commenti. Se solo l’uno per cento di questi commenti fosse inadeguato, cioè se io fossi un mostro di efficacia che la imbrocca quasi sempre, e di certo non è così, ci sarebbero in giro per il blog almeno cinquanta miei commenti del tutto frettolosi, forse antipatici e magari addirittura demenziali. Naturalmente produrre un commento inadeguato ogni cento (o magari ogni dieci) non è grave, il brutto è quando si supera una certa soglia.

Cerchiamo di definire ora cos’è il commento sciocchino (cretino) che ti fa proferire Perdinci (incazzare come una bestia). Innanzitutto non si tratta di quei salutini leggeri, tipo buona giornata o buon we, che bel blog o come sei bravo (cioè il tipico commento di chi non legge il tuo post, ma vuole ugualmente ricevere un tuo messaggio possibilmente articolato)… In realtà io sono piuttosto fortunato, perché non mi capitano spesso interventi di questo tipo, che in ogni modo non mi danno per nulla fastidio. Non mi riferisco nemmeno ai personaggi che usano il tuo blog per fare pubblicità a una loro attività lavorativa o a una loro iniziativa più o meno benefica: la pubblicità, benefica o meno, è lecita entro certi limiti, a condizione di aver letto il post e di averlo commentato sia pure sinteticamente. Né parlo di quelli che ti commentano leggendo solo il titolo dell’articolo o l’ultima frase, di quelli che ti attribuiscono una tesi del tutto arbitraria, degli anonimi che ogni tanto te ne sparano qualcuna a tradimento perché è sempre uno sballo sfregiare con un temperino le macchine degli sconosciuti, o meglio ancora dei vicini di casa, o bucargli le gomme quando nessuno può vederti.
No, il commento stupidin stupidino (trallallero trallallà) a cui mi riferisco è fatto in genere da una persona non troppo erudita (non è niente di grave, tutti siamo ignoranti, io mi rendo conto ogni giorno che la mia ignoranza è abissale in quasi ogni campo della vita), che quasi mai si dedica a meditare sui problemi esistenziali (nemmeno questo è grave, meditare è una gran rottura, io se potessi me ne starei tutto il giorno su uno yacht a Portofino a ingollare esotici drink, spupazzarmi esotiche girl e lanciare esclamazioni, anch’esse esotiche, che fanno Ohhhhhhhh e fanno Ahhhhhhh, come goooodooooo!!!!)… Ebbene, a dispetto delle sue evidenti magagne intellettuali, questo tipo di persona per incomprensibili alchimie esistenziali pretende di rilasciare giudizi netti e recisi su materie di cui non sa niente o su cui ha solo idee preconfenzionate da talk o reality show o da marito di Simona Ventura. E’ incredibile come questo tipo umano sia sicuro di avere ragione berciando banalità su temi storici, politici o perfino scientifici. E’ incredibile come non sia sfiorato dalla minima prudenza, perché esiste sempre la possibilità per chiunque di dire uno sproposito quando si apre la bocca o si digita sulla tastiera. No, sentenzia sicuro questo personaggio, quella determinata categoria sociale – di cui egli evidentemente non fa parte – è composta da criminali che da migliaia di anni opprimono la gente. Quella certa istituzione politica, ideologica o religiosa – da cui ovviamente si è ben fuori - è un covo di aguzzini che più o meno torturano la brava gente, di cui egli è uno dei più insigni esponenti, da quando c’erano i dinosauri.

Già un giudizio siffatto, tutto bianco o tutto nero, con il nero che sono gli altri e il bianco che sei tu in ogni circostanza e occasione, mi fa imbestialire. Ma il peggio è quando un commento sciocchino sul tuo blog riscuote subito un successo strepitoso e induce altre persone a sposare la causa o la tesi a te invisa. Quel primo commento scellerato crea una reazione a catena che altrimenti non ci sarebbe stata. In breve ti trovi tutto l’uditorio virtuale spostato su posizioni non gradite e non c’è nulla che tu possa fare per sistemare la situazione, se non incazzarti e cambiare post.
Il fatto di dover cambiare post, magari dopo nemmeno un giorno dalla sua sofferta creazione, è una delle cose che ti contraria di più. Il post che hai scritto era meditato, revisionato con la solita cura per renderlo efficace e incisivo, ti induceva perfino a sorridere mentre lo scrivevi perché, a torto o ragione, ti sentivi bravo e intelligente. Pensavi che una volta pubblicato l’articolo i tuoi sforzi avrebbero riscosso successo ed è dura pensare che la realtà è ben diversa, probabilmente solo a causa di quell’unico scellerato commento che ha originato una deriva funesta nell’opinione dei tuoi lettori.

giovedì 26 aprile 2007

La donna ha inventato l'amore


Facciamoci una domanda, cari amici del blog. Chi ha inventato l’amore? C’è poco da riflettere. L’amore l’ha inventato la donna, è una sua creazione. L’amore è donna. O meglio potremmo dire che il bambino umano, con la lunga gestazione e le cure di cui necessita, ha obbligato la donna a inventare l’amore.
Lasciamoci andare infatti a una piccola fantasia. Siamo donne di un tempo andato, diciamo di un milioncino di anni fa. Se oggi la vita è dura all’epoca era molto peggio. Predatori, carestie, cambiamenti climatici, tragedie varie contribuiscono a farci vedere la vita come una roulette russa. Mentre abbiamo questa pistola evolutiva puntata alla tempia, dobbiamo sopravvivere non solo noi, o valorose donne preistoriche, ma far vivere dentro il nostro grembo il nostro piccolo e poi curarlo e assisterlo finché non sia diventato autosufficiente. Non è uno scherzo. A causa della lenta maturazione del suo cervello enorme, il nostro piccolo necessita di una gestazione lunghissima, superiore a quella di tutti gli animali noti. E quando sarà venuto alla luce sarà indifeso e incapace come un feto, anzi sarà a tutti gli effetti un vero e proprio feto, una creatura nata anzitempo. Il suo cervello infatti ha bisogno di maturare e crescere ancora e il nostro bambino è dovuto nascere solo perché altrimenti la sua testa non avrebbe potuto più varcare il bacino materno. Non è finita qui. Dovremo nutrire il nostro cucciolo d’uomo con cibo vero e difficile da procurarsi e con cibo intellettuale, forse ancora più difficile da donare nella giusta misura. Gli dovremo trasmettere ogni nostra conoscenza e aggiungerne delle altre, altrimenti il suo meraviglioso apparato cerebrale sarà come un cannone scarico.

La vita è grama per noi femmine primordiali. Riassumiamo. Dobbiamo fare figli e portarli alla maturità, sottoporci a un investimento enorme in energie, tempo, sentimenti. Un investimento molto più oneroso di quello delle femmine di altre specie animali (una tartaruga marina si limita a deporre decine di uova nella sabbia e poi se ne disinteressa, la natura provvederà, la madre di uno gnu vede il suo cucciolo alzarsi in piedi a poche ore dalla nascita e camminare e poi trotterellare). Dobbiamo prodigarci affinché il nostro soffertissimo investimento esistenziale non vada perduto, fare in modo che il nostro fragilissimo bambino umano viva per perpetuare i nostri geni e la nostra specie. Abbiamo bisogno di aiuto, da sole non ce la possiamo fare, non in questo mondo preistorico senza assistenza sociale e indennità sanitaria. Abbiamo bisogno che l’uomo che genererà il figlio resti con noi e non se ne vada in giro a sfarfalleggiare con altre femmine dopo averci fecondate, come lo porterebbe a fare la sua natura biologica. Dobbiamo incatenarlo qui accanto a noi, costringerlo ad aiutarci a tirare su questo difficilissimo figlio che metteremo al mondo.

Come fare? Non lo possiamo convincere a parole, anche perché non sono state ancora inventate e comunque le parole servono a poco, lo si capirà pure nel tecnologico mondo che verrà tra un milione di anni. Dobbiamo inventarci qualcosa a livello biologico. La prima cosa da fare è tenere il nostro estro nascosto. Evitare di mandare in giro feromoni irresistibili come fanno gatte, cagne e tutte le femmine in calore. Se il nostro partner non sa qual è il nostro periodo fertile, sarà costretto a restare con noi un lungo periodo di tempo se vuole avere la ragionevole certezza di averci fecondate. Altrimenti ciò che farebbe sarebbe di trovarsi una femmina fertile, combattere eventualmente con altri maschi per assicurarsi la precedenza nell’accoppiamento, inseminarla e quindi diventare uccel di bosco… insomma un copione già visto e rivisto nella storia della vita sulla terra. Ora invece se il nostro compagno se se ne va in giro a fecondare altre donzelle abbastanza sapiens, magari quello è proprio il nostro periodo fecondo e qualche altro bellimbusto preistorico utilizzerà la sua assenza per riprodurre i propri geni a discapito del latitante.
Inoltre saremo fertili tutto l’anno e non in un solo periodo particolare come accade quasi sempre in natura. Che significa? Be’, che a qualche maschio intraprendente gli sarà un po’ difficile crearsi un harem, perché una cosa è difendere un gruppo di femmine dall’attenzione altrui per una limitata stagione degli amori e una cosa molto diversa è farlo tutto l’anno. Un singolo individuo che si imbarcasse in un progetto simile finirebbe in quattro e quattr’otto sul lettino di un dottor Freud dei Flinstones. Inoltre la vita dei primordi è dura anche per gli Schwarzenegger preistorici, nemmeno loro ce la possono fare a tirare avanti senza l’aiuto di altri maschi, nella caccia o nella difesa del territorio, e nessun uomo si sognerebbe mai di aiutare un avido latifondista di donzelle dei tempi andati.
Abbiamo fatto abbastanza, noi donne preistoriche per indurre la nostra specie a imboccare il cammino che la renderà speciale. In verità abbiamo fatto quasi tutto noi. Ma ancora non basta. Dobbiamo fare di più. Dobbiamo inventare qualcosa di rivoluzionario che non si è mai visto sulla faccia della terra. Dobbiamo inventare l’amore.

Continua…

lunedì 23 aprile 2007

West napoletano


Aggiornamento sulla burocrazia napoletana. Qualcuno ricorderà un mio recente commento in cui chiedevo - a tre impiegati nullafacenti di una remota asl posta in mezzo al West napoletano - informazioni sull’esenzione dal ticket… e la risposta degli sfaccendati, uno di quali dovette addirittura interrompere la lettura di un ponderoso romanzo di amore stimato sulle 600 pagine, che mi inviavano in un posto scordato da Dio per ottenere il permesso medico desiderato. Il luogo per la cronaca si chiama rione Incis ed è un ambiente persino più malfamato del quartiere dove vivo io.
Bene, oggi sono andato nel posto scordato da Dio per ottenere l’agognata esenzione medica. Non dirò dei giri folli fatti dall’autobus per arrivare a destinazione (per ogni 100 metri in linea d’aria il mezzo pubblico ne percorreva 600, e non scherzo). Comunque in un modo o nell’altro sono giunto alla meta. Nell’asl del rione ai confini della realtà, rilevo sfaccendati e nullafacenti in numero di sei. In altre parole, nella sola saletta d’entrata dell’asl stazionavano sei persone che non avevano una mazza da fare pur essendo stipendiate con denaro pubblico. Dico a uno degli sfaccendati, una ragazza che civettava poco prima in napoletano stretto con altri due compagni di ozio, che sono lì per fare l’esenzione. Per malattia o per reddito? Per reddito, si sa, non ho un centesimo. Mi dice che non ho diritto all’esenzione. Come sarebbe a dire che non ho diritto, sono disoccupato, ho una madre malata di cuore, un fratello in crisi coniugale e un nipote tartassato da una banda di bulletti scolastici alla Arancia Meccanica… se non ho diritto all’esenzione io chi ce l'ha?

Dice che no, non ha importanza se faccio la fame o dormo sotto i ponti, per potermi fare una visita medica senza pagare devo aver avuto un lavoro negli ultimi due anni ed essere stato licenziato. Osservo che la mia condizione economica è di sicuro peggiore di quella di chi abbia ricevuto almeno uno stipendio negli ultimi due anni. Dice che le leggi non le fa lei. Nessun licenziamento biennale, nessun esonero dal ticket sanitario. Mi sono scordato di George Clooney? No martini, no party. Non protesto, perché i nullafacenti raccomandati e retribuiti dall'ignara collettività hanno la particolarità di far comunella contro il prossimo, specie quello indignato. E’ uno schifo, mi limito a osservare, che io per avere quella notizia debba essere andato alla fine del mondo. La sfaccendata serpentessa sibila che un’asl sotto casa mia faceva la stessa cosa. Come? esplodo. Avrò domandato a duemila persone e nessuno ha mai accennato a questo. Se nessuno mi ha detto niente, dichiarano i ghigni collettivi degli oziosi dell’asl, non sono affari loro.
Esco dall’edificio sanitario. Mi avvio alla fermata. L’autobus passerà tra un’ora. Poi verranno tutti quei giri tortuosi apportatori di mal di mare. Ho tempo per guardarmi in giro. Sono in una specie di Bronx stile John Carpenter Distretto 13, palazzoni anonimi, stradoni e manco un cane per strada. Noto la presenza di cancelli rinforzati dappertutto, come se gli abitanti della zona dovessero affrontare assalti notturni di orde unne. Tutte le finestre del piano terra e la quasi totalità di quelle del primo piano sono difese da sbarre di ferro più spesse di quelle di un carcere di massima sicurezza. Mi rendo conto solo ora che la grossa inferriata accanto alla fermata dell’autobus non mi divide da un cantiere edile. Quello è un palazzo con gente che ci vive dentro. Si apre infatti un cancello enorme che produce un ronzio elettrico tipo Alcatraz ed escono una signora anziana e una bambina, che si avventurano sul marciapiede dopo essersi guardate a destra e a manca. Non sembrano classificarmi come uno degli unni o dei morti viventi che nottetempo devono impossessarsi di quelle strade.

sabato 21 aprile 2007

L'uomo che non poteva morire


Vorrei segnalarvi il mio problema. Non perché possiate farci niente, nessuno può farci niente. Solo per sfogarmi. Anche se poi non mi sfogo troppo. Il mio problema, e ammetto che è una tragedia che fa di me l’essere più sfortunato di tutti i tempi, è che non posso morire. Avete capito bene, sono immortale. Posso continuare a restare sulla terra, a muovermi, vedere gente, fare le cose che fanno i vivi, senza soluzione di continuità. Io non morirò mai. Sono l’essere più sventurato del creato.
In verità sono molto, ma molto più vecchio di quanto chiunque penserebbe. Sono nato prima di Cristo, prima di Annibale, prima di una moltitudine di uomini e di avvenimenti. Se i miei calcoli non sono sbagliati, ho 2512 anni. Potete crederci o non crederci. Non fa molta differenza. Come sono diventato così? Be’, è stato tanto tempo fa, i ricordi tendono a confondersi. C’entra la magia. Quella nera, ovviamente. C’entrano stregoni, filtri magici, riti esoterici di cui s’è persa traccia da millenni. C’entra un’entità sovrannaturale che mi ha proposto un patto. Ero ubriaco di vino etrusco per farmi coraggio, ma non posso negare di avere accettato i termini del patto scellerato. L’entità sovrannaturale avrebbe soddisfatto un mio desiderio, ma dovevo dare qualcosa in cambio. Dopo aver scelto l’attributo che mi rendeva simile a un dio, sono rimasto sorpreso quando non mi è stata sottratta l'anima per pareggiare i conti. Ho pensato a un colpo di fortuna, avevo la vita eterna senza pagare dazio, eppure poi ho scoperto che il prezzo da scontare era ancora più salato.
Ho visto l’impero romano, le invasioni barbariche, le crociate, la scoperta di mondi nuovi, il secolo dei Lumi e molti Quarantotto e Sessantotto. Ho visto tutto quello che c’era da vedere, ho provato tutti i piaceri concessi agli uomini. Alla fine ti accorgi che la vita diventa come un film visto milioni di volte, fai le stesse cose, dici le stesse parole, compi gli stessi sbagli, vedi le stesse facce che pensano e vogliono le stesse cose. Alla fine ti accorgi che non ne puoi più di quel disgustoso e monotono film, che ogni giorno, ogni ora di permanenza sulla terra diventano un tormento. Ho dovuto rinunciare a molto più che alla mia anima, l’ho capito solo dopo.

Naturalmente ho cercato di morire molte volte. Mi sono trafitto con spade, buttato da ponti, avvelenato, sparato alla testa. Al tempo dell’Inquisizione, fattomi passare per eretico, mi sono immolato sul rogo. Niente da fare. Il mio corpo e le mie cellule si rigenerano dopo ogni tentativo fallito. Non posso morire. Sono l’essere più infelice del creato. Sono condannato a un supplizio un milione di volte peggiore di quello di Tantalo.
Tuttavia non sono del tutto senza speranze. Nemmeno l’entità perversa che mi ha condannato alla vita eterna era malvagia fino in fondo. Ho una possibilità per conquistare l’agognata morte. Posso lasciare questo mondo, ma si deve verificare un evento difficile a verificarsi in sommo grado. Io mi devo innamorare di una donna. Devo provare almeno una volta un sentimento lieto, spassionato, devo sperimentare la voglia di donare me stesso senza remora, senza tornaconto, di sacrificarmi al posto di una creatura che parla alla mia anima, devo desiderare dare la mia vita per lei se necessario. Devo provare l’amore, quello scritto tutto in maiuscolo, per poter morire.
In tutti i duemilacinquecento anni della mia esistenza questo evento non si è mai verificato. Ho conosciuto carnalmente innumerevoli donne. Ho conosciuto le gioie del sesso, della lussuria, ho provato ogni piacere, anche impeti di passione ispiratori di liriche ammirate per secoli. Ma ciò che ho provato non era amore. Però non ho perso le speranze. Magari incontrerò presto l’anima bella che prenderà il mio cuore, magari quell’anima bella si trova proprio tra le delicate creature che leggeranno queste righe. Prego il Creatore dell’universo che una di voi, o mie caritatevoli lettrici, si impadronisca del mio cuore in modo fa farmi beneficiare del sospirato trapasso.

mercoledì 18 aprile 2007

Credo


Credo nei film di Charlie Chaplin, nella Hollywood in bianco e nero, in Billy Wilder, James Stewart, Marlene Dietrich e soprattutto in Walter Matthau e nei telefilm di Zorro interpretati da Guy Williams.
Credo nel blog, nel primo commento che ricevi, nel galateo virtuale che non significa farti offendere senza reagire, nel mio angelo custode che parla come Antony Hopkins quando fa il maggiordomo, nei libri, quelli usati, ma all’apparenza nuovi, che paghi un euro al chilo, nel mio cul cool che fa boom quando c’è la moon, oh yeahhh, in Titti, con cui fummo tonti quanto Totti, tutti. Oh-oh ye-yeahhh,
Credo nella poesia epica, nell’Iliade tradotta da Vincenzo Monti, nel coraggio di Ettore che va alla morte, in Walt Whitman, nel barbarico Yawp, nel cuore, cuore, cuore, nelle rosse gocce sanguinanti sul ponte dove è disteso il mio Capitano.
Credo in Lucio Battisti e nei giardini di marzo che si vestono di nuovi colori, nel giorno in cui credi di esser giusto e talvolta addirittura nel trottolino amoroso e tuttù e tattà, nella mia rabbia enorme per cui servono giganti, nei secchi di vernice con cui colorare case, vicoli e palazzi, negli Hotel California e nella “One” di Johnny Cash e solo in quella, nei treni di Tozeur cantati a squarciagola per strada con la gente che ti guarda come il pazzo che sei.
Credo negli orizzonti lontani, nei campi di grano di cui non so niente, nei piedi nudi nel parco o meglio ancora sulla polvere e sulle pietre dure della terra di mia nonna, nelle grandi praterie e nelle mandrie di bisonti che irrompono nella mia stanza.
Credo nei cruciverba per solutori esperti della Settimana Enigmistica e nelle strade napoletane in cui, tra lampioni nebbiosi e Blockbuster, sembri percepire la presenza di qualcosa che non è di questa terra.

Credo nelle mutande delle ragazze che fuoriescono dalla vita bassa dei jeans, nelle tette e nei culi finché non ti danno nausea, nei coccodrilli bianchi che un giorno usciranno dalle fogne per farla pagare a politici rampanti, portaborse, ruffiani e mezzecalze.
Credo nell’amore a prima vista, ma solo quando ne parla Emma, nelle mani delle donne anche quando sono diverse da quelle della farmacista sotto casa mia, nei loro sederi pieni, nelle loro cosce, nel settentrione femminile che stimola amore e nel meridione donnesco che ti fa smaniare di sesso, credo che esista una formula dell’amore e che nessuno la troverà mai e io men che meno, in Isaac Asimov, nella sua trilogia galattica, nei fumetti della Marvel quando li disegnavano John Buscema e Jack Kirby, in Tex Willer, ma soprattutto nell’Alan Ford di Magnus, nel momento più felice della mia vita verificatosi con un albo dell’Incredibile Devil in mano, credo nei musicisti da strada peruviani che si spacciano per Sioux purosangue, in Cavallo Pazzo e nei suoi pochi ma indimenticabili amori, in Piero Angela quando fa a pezzi Uri Geller e le sedute spiritiche, nel prestigiatore americano, terrore degli imbroglioni paranormali, James Randi, nel mio sentirmi coglione quando, carico di libri, osservo le gambe stupende delle ragazze di Port’Alba accompagnate da bellimbusti semianalfabeti. Credo nei romanzi di fantascienza catastrofici, quando sopravvivi per miracolo alla fine del mondo e quando per un miracolo ancora maggiore trovi l’amore e la felicità in una società alla rovina.

Credo nella scrittura come mezzo per stare bene o meglio di come stavi prima e nei manuali di scrittura creativa. Credo che oltre la siepe non ci possa essere solo il buio, che non possano sparire sensazioni come quelle di un seno timido che un giorno si posò sul tuo braccio durante una giornata di pioggia, credo che l’intero universo sia venuto da qualche parte e che non possa svanire un giorno senza lasciare traccia di sé, senza nemmeno un’eco lontana che si riverberi nel simil nulla.
Credo in Joe Frazier, l’eroe silenzioso del ring, in Marco Pantani sul Galibier, in Pietro Mennea quando parlava di se stesso in terza persona, in Maradona quando arrivava primo sulla palla, nel profeta del gioco d’attacco Arrigo Sacchi che ho aspettato dal giorno in cui davo i primi calci a un pallone in un mondo pieno di farfalle e di erba a forma di spighette. Credo nel cuore saldo dei nostri giocatori in Germania, quando avevamo vinto il mondiale ancora prima di tirare i calci di rigore. Credo che non ci siano canzoni più belle di “Dicintencello vuje” o “Voce e notte” e che i film di Totò sfuggano all’invecchiamento molto meglio di opere superosannate dai critici cinematografici.
Credo in Rosario, che mi svendette il suo tesoro della Marvel il giorno in cui dovette sposarsi e mettere su casa a soli diciotto anni e credo di aver amato Rosanna molto, molto tempo fa sui banchi di scuola, ma penso che lei non l’abbia mai saputo. O forse sì.

venerdì 13 aprile 2007

Il Nulla


Niente.
Il Niente, il Nulla.
Non uno spazio vuoto, senza materia. Uno spazio vuoto, con o senza materia è comunque Qualcosa.
Non una nostra raffigurazione mentale di una Dimensione del Non Essere. Una qualsiasi dimensione non è niente, e anche un qualunque prodotto della nostra immaginazione è Qualcosa.
Non un posto che si trovi fuori dei confini dell’Universo: se è un luogo o un ambito che si può definire e situare rispetto a un sistema (abbastanza) noto come l’universo non è Nulla.
Non un’entità e nemmeno una non entità.
Un concetto che non si può definire. Un’astrazione che non si può concepire.
Non uno pensiero, non un’immagine, non una o cento parole. Niente che si possa descrivere, niente che si possa comprendere.
Nulla.
Il Nulla.
Pensare di diventare il Nulla.
Pensare di diventare il Nulla.

Il mondo è grigio, il mondo è blu


Parte prima, l’osservazione. Stamattina sono andato dal dottore per farmi scrivere i medicinali per mia madre. Come al solito il mio medico la fa lunga con le visite, forse per darsi arie da luminare della scienza mentre è solo uno scribacchino di ricette. Sono uscito fuori dello studio per aspettare. Ho visto un bar con diversi contenitori pieni di erbe e piante. Mi sono reso conto della mia ignoranza, non solo non conoscevo i nomi di quelle piante e di quelle erbe, ma non li sapevo identificare nemmeno dalla forma. E non sapevo identificare nemmeno i non molti alberi che si vedevano in giro, eccetto i pini. Mi è venuto in mente Celentano: le case non solo non lasciano l’erba, ma neppure il ricordo di essa.

Parte seconda, la meditazione. Ho avuto un ricordo improvviso. Di un tempo in cui uscivi di casa e trovavi prati pieni di erba e fiori. Ho capito che non vedo quasi più una particolare erba di quei tempi. Era a forma di piccola spiga, ne potevi staccare le estremità ottenendone dei minuscoli dardi verdi che se buttati sulle magliette dei tuoi compagni vi rimanevano attaccati. E poi i maggiolini, quanti ce n’erano. E come era facile catturarli, buttandovi sopra la tua maglietta o magari chiudendo le mani a coppa su uno dei tanti fiori che visitavano. Non gli volevi fare davvero del male, a quegli animaletti. Ti limitavi a infilarne un certo numero in un barattolo di vetro per poi liberarli dopo aver mostrato in giro il tuo bottino di caccia. A quei tempi la casa di mia nonna sorgeva in mezzo a terre incolte, profumatissime, con l’erba alta, ma alta, dove potevi passeggiare a piedi nudi, a piedi nudi sulla polvere e sulle pietre o sui margini scivolosi di un ruscelletto di campagna, cercando di non mostrare ai tuoi compagni di aver paura di incontrare una delle vipere che qualche fanfarone di tanto in tanto diceva di aver avvistato. Dove sono finiti tutti quei maggiolini e quelle spighette da usare come simpatiche frecce? E dove si sono nascoste le farfalle di una volta?

Parte terza, la nostalgia. Già le farfalle. Ce n’erano a centinaia, nei mesi buoni. Uscivi di casa e ne vedevi a frotte, alcune dai colori così sgargianti da lasciarti senza fiato. Noi ragazzini napoletani avevamo una specie di classificazione zoologica imparaticcia. La farfalla normale, quella poco grande e poco vistosa nella colorazione, si chiamava “’a palomma”. Il palummaro era una farfalla più grossa e appariscente, un farfallone, che quando diventava “palummaro ‘o vero” era provvisto di due vistose code nere. Infine l’elite delle ali colorate, ‘a reggina e ‘o rre, ossia le due farfalle più variopinte e rare che potevi trovare dalle nostre parti (era un evento quando avvistavi 'o rre e non ricordo che nessuno ne abbia catturato un esemplare). Dove sono finite tutte quelle farfalle? Di certo sono rimaste vittime dell’inquinamento e della cementificazione. Tempo fa ero nell’ormai noto (ai lettori di questo blog) parco Massimo Trosi. Nemmeno lì si vedevano farfalle, così mi pare. Tuttavia un giorno ero sulla “collinetta” cioè un’altura artificiale del parco di una ventina di metri, con molti alberi e verde. Mentre me ne stavo in un piccolo terrazzo panoramico mi capitò di vedere una farfalla, una sola, che svolazzava da quelle parti. La farfalla era il famigerato Rre della mia infanzia. Mi resi conto che le mie labbra ridevano dopo aver fatto quella riflessione.

Parte quarta, il mondo è grigio, il mondo è blu. Mentre aspettavo il mio turno fuori dallo studio medico, (detesto stare chiuso in una stanza senza potermi muovere), è passata un giovane mamma. Non sembrava affatto una mamma. Era vestita come una ragazzina con questi informi jeans rap tutte tasche e taschini, e la vita posta ben dentro le chiappe. Scarpe da ginnastica multicolori, trucco e look da smorfiosetta soft rock. Aveva un bambino piccolo dentro un carrozzino superaccessoriato, modernissimo, sembrava provvisto pure di air bag e navigatore satellitare. Mi sono chiesto dove diavolo sono finite le mamme che si vestivano da mamme e le farfalle di una volta.

giovedì 12 aprile 2007

La felicità è scrivere senza soffrire


Forse per la prima volta nella mia vita mi accorgo di scrivere con facilità, senza sforzo, anche per parecchio tempo. E’ una sensazione magnifica scrivere senza fatica, percependo che riesci a comunicare il messaggio desiderato nel modo voluto. E’ come correre in mezzo ai prati con il sorriso sulle labbra e un venticello fresco che ti sospinge in avanti. La gioia è ancora maggiore se in passato raramente hai sperimentato questa felicità e leggerezza di scrittura.

Ricordo che nei primi tempi che scrivevo al computer dopo nemmeno un’ora di lavoro ero preso da sbadigli catastrofici, da una stanchezza mortale che mi faceva bruciare gli occhi, senza pensare ai crampi nelle dita o negli avambracci, specie in quello sinistro, o al famigerato tunnel carpale. Avevo dolori dappertutto, la schiena era un tormento. Davvero era un calvario proseguire nella scrittura per lunghi periodi. Dio mio, quanti sbadigli avrò fatto in quei periodi, li ricordo tutti a uno a uno. Cercavo di resistere sulla mia postazione di lavoro, ingozzandomi di caffè oltre ogni limite consentito, mentre limavo qualche capitolo di romanzo o miglioravo qualche dialogo, ma la stanchezza estrema in breve aveva ragione della mia volontà e mi costringeva ad abbandonarmi esausto sul letto. Da lì fissavo il computer con odio, giurando che alla prossima occasione non sarebbe riuscito a mettermi kappaò così presto.
Avevo alcune spiegazioni per questo spiacevolissimo fenomeno. Mi dicevo che le tastiere che usavo erano troppo dure (per anni ho difeso con la vita il possesso di una tastiera da computer 386 a cui ho dedicato un post qui). Le rotelline del mouse si bloccavano spesso facendoti impazzire, la sedia da cucina era dura e scomoda, il tavolo più claustrofobico che stretto e soprattutto il monitor aveva basse frequenze di refresh (i famosi hertz)… per anni ho lavorato con un monitor a 60 hertz senza sapere che in quel modo mi uccidevo gli occhi. Miseriaccia infame, quanto ho sofferto.

Per fortuna da poco più di un anno le cose vanno molto meglio… In questo periodo si sono verificati favorevoli cambiamenti soprattutto i due campi, la comodità degli strumenti di scrittura e il fatto di dover scrivere sul blog.
Per quanto riguarda la comodità operativa, mese dopo mese ho accumulato alcune migliorie alla postazione di lavoro che mi mettono quasi in condizione ottimale per scrivere. Prima di tutto ora posseggo un monitor lcd da 17 pollici che è circa un milione di volte più riposante del vecchio monitor crt in bianco e nero da 14 pollici, comprato tra l’altro di seconda mano. Inoltre ho un tavolo da computer grande, arioso, e una poltroncina regolabile in altezza e inclinazione. Infine l’asso nella manica di recente acquisizione: un set tastiera e mouse senza fili, una benedizione di Dio in quanto a ergonomia (non vorrei bestemmiare, ma la tastiera wireless che ho ora mi sembra perfino più confortevole di quella gloriosa a cui ho da poco fatto il funerale). Il mouse senza fili e senza le maledette rotelline che si bloccavano a ogni pie’ sospinto è un portento.

Il fatto di scrivere per il blog, come ho già detto in altre occasioni, mi ha dato scioltezza, e mi ha allenato ad affrontare il giudizio di un pubblico di lettori che ti fanno capire cosa funziona e cosa no nella tua prosa. Il blog ti fa percepire gli umori e le reazioni della gente come di certo non ti capita se scrivi per te stesso in una stanza isolata dal mondo. Scrivendo post, e leggendo quelli altrui, ti dedichi a un sano tennis letterario, butti la palla nel campo avversario e ti prepari alla risposta con il rovescio incrociato… Non batti palle letterarie in un campo morto in cui nessuno si sogna di dirti o farti capire se giochi bene o male.

Mi sono reso conto della recente facilità di scrittura scrivendo alcuni capitoli di un romanzo che sto revisionando e che spero di pubblicare in un tempo non lontano. Durante la prima stesura del romanzo, risalente a parecchi anni fa, ricordo che buttavo il sangue per procedere; ora invece non ho avuto difficoltà a impostare e finire le scene, sono andato dall’inizio alla chiusura di un capitolo senza sforzo. Nessuno potrà mai sapere che sensazione stupenda sia scrivere con facilità, dopo che per anni hai dovuto combattere contro sbadigli assassini o contro crampi all’avambraccio e altri dolori che quasi ti facevano piangere.

martedì 10 aprile 2007

Il pianeta delle sexy scimmie virtuali


Cos’è che dà un senso alla nostra esistenza e la rende ricca e creativa? Qual è lo Scopo – notare la maiuscola – per cui ci troviamo sulla terra? Quale sarà il futuro del mondo e degli uomini? Chiaramente sono domande basilari a cui non hanno saputo rispondere fior di filosofi, figuriamoci se possiamo credere che un semplice post risolva la questione. Comunque credo che un fatto capitatomi di recente possa farci riflettere, il che non fa mai male.

Ero andato a casa di mio nipote, il figlio della mia sorella maggiore, per aggiustargli il computer, un vecchio Pentium III che ogni tanto fa le bizze finché il qui presente Capitano non lo mette in riga con il suo tocco sapiente e delicato. Riaccompagnandomi in auto, mio nipote mi raccontava delle sue esperienze in chat. Pare che si dia da fare alla grande con quello strumento di comunicazione e pare che i suoi sforzi siano indirizzati interamente a persuadere donzelle virtuali a cedergli in temporaneo usufrutto certe regioni anatomiche di solito poco illuminate dal sole. Lo sconsiderato giovinotto si vantava di aver sedotto, tra sedili ribaltabili di automobili e luoghi affini, un numero di fanciulle da chat confinante con la dozzina. Ed elencava le sue conquiste più o meno come un reduce napoleonico declamava il suo insostituibile apporto bellico ad Austerlitz o Wagram. Lo scellerato aveva degli amici, anch’essi impegnati a usare la chat alla stessa stregua, talvolta con risultati perfino più corposi e cospicui dei suoi (leggi una maggiore collezione di scalpi femminili).

Naturalmente il vostro indegno narratore è solo un essere umano, e come tale soggetto a tutti i disdicevoli impulsi tipici dei propri simili. Ascoltando le vanterie di mio nipote, mi ha preso un’invidia manifestantesi con uno schietto verde facciale. Probabilmente mi dicevo qualcosa come: guarda sto stronzetto dall’ignoranza abissale, tromba a trecentosessanta gradi senza sforzo, come accidenti farà? Avrei preso volentieri a calci nei fondelli lo scostumato.
Poi però l’invidia è sparita di colpo, senza una ragione apparente. Ho avuto come una visione. Qui c’era mio nipote accampato dalla mattina alla sera sulla chat per copulare, in una maniera o nell’altra, con una ragazza o con un’altra. Là c’erano i suoi amici intenti nella stessa occupazione con lo stesso impegno. Ancora più in là c’erano altri ragazzi e uomini, dispiegati su decine o centinaia di chat, con lo stesso pensiero monotematico in testa. Venivano poi migliaia e migliaia di fanciulle e signore che cercavano di superare la solitudine esistenziale utilizzando lo stesso strumento di comunicazione. Mi sono reso conto che quel fenomeno era già vistoso e diffuso, ma che in futuro si sarebbe dilatato ancora di più. A un tratto la visione si è trasformata in qualcosa di più, in una rivelazione. Per cinque o dieci secondi mi è parso di sapere per filo e per segno come sarebbe stato il mondo futuro, quando computer e comunicazione virtuale si sarebbero diffusi senza limiti. Ho visto un intero pianeta che utilizzava la chat o strumenti di comunicazione simili solo e soltanto per fare sesso. Nel pianeta di quei cinque o dieci secondi la gente quasi non comunicava più nel mondo reale, nella dimensione della carne e delle ossa. Si affidava del tutto a chat e affini per procurarsi la sola cosa di cui sentiva il bisogno, cioè il sesso, giudicando questo modo di interagire più semplice, rapido ed efficace per assicurarsi la droga a buon mercato del futuro. Non si sarebbero più abbordate le ragazze per strada con scuse futili (“Non ci conosciamo già?”), ma si sarebbe attuata la stessa operazione in altre dimensioni incorporee (“Che bel nick hai!”, o più spicciativamente “Anni?… Di dove?”).
Mentre avevo questa visione, ricordo di aver pensato, per invidia o per convinzione, qualcosa che suonava come: “Che cazzo di schifo di mondo!” Ho pensato proprio così: che schifo di mondo ci aspetta.

Finito l'intermezzo contemplativo, sono tornato a chiacchierare con il mio ameno consanguineo. Gli ho detto di interessarsi pure di cose più serie, ma lui se l’è risa in stereofonia come se vaneggiassi o fossi invidioso.

sabato 7 aprile 2007

Jesus Christ Superstar


Immaginiamo di dover fare un film su Gesù, mi seguite, amici? Però vogliamo usare un linguaggio diverso. Dire qualcosa di nuovo che colpisca i giovani, ma non solo. Vogliamo creare un’opera che lasci il segno. E se facessimo un musical?
Dite che un musical sulla vita di Cristo sarebbe una scelta troppo azzardata? Non sono d’accordo. Anzi, sapete cosa vi dico? Il musical lo facciamo rock. Sì, avete capito bene. Faremo un film in cui Gesù, gli apostoli e perfino Caifa e Ponzio Pilato si esprimeranno nel linguaggio musicale dei Deep Purple e dei Led Zeppelin. No, non bruceremo organi Hammond e chitarre Fender in diretta, non inneggeremo alla droga libera, ma faremo tutto il resto. Avremo sullo schermo un Gesù con una voce potente alla Ian Gillan, con uno spessore canoro alla Mick Jagger. Un Cristo umano e talvolta preda dell’ira, ma capace di amore e di sacrificio. Un Gesù che potrebbe camminare accanto a noi per strada o sedersi di fronte a noi nell’autobus.
Non basta ancora per il nostro film diverso. Rivoluzioneremo del tutto la figura di Giuda Iscariota, che non sarà più il traditore vigliacco conosciuto da tutti, ma gli daremo motivazioni politiche, ideali. Lo renderemo capace di criticare certi atteggiamenti di Gesù, anche se alla fine si redimerà e si renderà conto dei suoi sbagli. Ah, naturalmente la parte di Giuda la affidiamo a un nero, un afro-americano. Dite che sembra una scelta azzardata? Vediamo.
E per Maria Maddalena? C’è una cantante hawaiana che sarebbe perfetta, voce con tutti i crismi e grande pathos. Sì, lo so che non c’è mai stata una Maddalena con gli occhi a mandorla, ma c’è una prima volta per tutto. E non scordiamoci che abbiamo uno stupendo Pilato e delle coreografie moderne che daranno una gran resa sullo sfondo del deserto israeliano.

Mi sono da poco rivisto Jesus Christ Superstar approfittando dell’atmosfera pasquale. E’ rimasta intatta l’emozione e la suggestione che provai vedendo per la prima volta questo film straordinario. La parola giusta da usare sarebbe magia, una magia che ti cattura nonostante il passare degli anni (ne sono trascorsi 34 dalla sua uscita). Se non fosse per il tema sacro, si dovrebbe dire che il regista Norman Jewison ha stretto un patto con il diavolo, dato che questo film sembra modernissimo, come se fosse girato oggi o meglio ancora domani. Tutto è fresco e attuale. I volti un po’ hippy dei protagonisti, i passi di danza, la psicologia dei personaggi, le canzoni, le movenze.
Colpisce la bellezza abbagliante del deserto israeliano che fa da sfondo alla storia, strappano commenti ammirati le coreografie moderne o la spontaneità delle situazioni. Ma ciò che rende questo film un capolavoro sono le canzoni. Sono molte, tante da riempire un doppio Lp di una volta, e tutte belle.
Quella che ha fatto sognare me e intere generazioni di giovani e meno giovani è “I Don't Know How to Love Him” cantata da Yvonne Elliman nel ruolo di Maria Maddalena, in cui questo personaggio mostra un amore molto terreno e umano per Cristo.
Come regola generale le più belle canzoni sono cantate da Carl Anderson (Giuda) e Yvonne Elliman, ma ce ne sono di notevoli pure interpretate da Ponzio Pilato e Erode o dagli stessi apostoli. Straordinaria la canzone dei lebbrosi. Non mi pare che Ted Neeley (Gesù) interpreti brani memorabili, ma ricordo che il vigore e la ricchezza espressiva della sua voce lasciavano il segno.
Volevo citare i brani che mi sono piaciuti di più oltre a quello già nominato, ma poi mi sono reso conto che sarebbero da menzionare tutte le canzoni. Ricorderò solo “Heaven On Their Minds” di Carl Anderson, è la prima canzone dopo l’Ouverture, quella in cui Giuda canta nel deserto, che ritmo. “Everything's Alright” cantata soprattutto da Yvonne Elliman e Carl Anderson (è il pezzo in cui Giuda rimprovera Maddalena per gli unguenti che cosparge sul corpo di Cristo, sostenendo che tali prodotti si sarebbero potuti usare con maggior profitto… ne fecero una versione italiana pure Celentano e Claudia Mori). Una canzone che ho ascoltato con molta nostalgia è “Could We Start Again, Please?”, interpretata da Yvonne Elliman e Pietro nel deserto dopo l’arresto di Gesù. Infine c’è “Superstar” di Carl Anderson che era il 45 giri che spopolava all’uscita del film.
Ma come ho detto, le canzoni sono tutte molto belle. E il film è qualcosa che resterà nel tempo.

martedì 3 aprile 2007

Mi rimetto in forma correndo


E’ tempo di rimettermi in forma. Niente di meglio di un po’ di corsetta mattutina. Come nella canzone della Vanoni, ho la voglia, la pazzia, l’innocenza, l’allegria, e in più la tuta e un bel parco dedicato a Massimo Troisi in cui far mulinare le gambe. Le scarpe da ginnastica le compro al più presto in un mercatino della napoletana piazza Garibaldi. C’è tempo, facciamo passare Pasqua.
E’ molto che non faccio footing. Le volte scorse in cui mi dedicavo a questa attività mi davano fastidio soprattutto un paio di cose. Prima di tutto nell’ultimo ventennio non ho mai vantato una grossa forma fisica (ai tempi del liceo invece andavo alla grande in quasi tutti gli sport eccetto il nuoto). Questa mia carenza atletica mi porta a correre nel parco a una velocità irrisoria e a sbuffare mentre lo faccio (credo contribuiscano a quest’ultima azione pure il mio setto nasale deviato e qualche altro problemino respiratorio). Non ci sarebbe niente di male a correre piano e a sbuffare, se non ti sfrecciassero continuamente davanti torme di maratoneti dilettanti che vanno a velocità doppia della tua raccontandosi barzellette sui carabinieri o discutendo della aleatoria maggioranza al senato del governo Prodi. E vabbé, passino maratoneti dilettanti e mangiachilometri del dopolavoro, ma c’è una categoria sociale da cui non sopporto proprio di essere superato in surplace. Ammetto di essere rozzo e avere disdicevoli pregiudizi, ammetto perfino di avere una mentalità retrograda del tutto inadeguata al mondo moderno. Ma mi sento sprofondare quando facendo footing le donzelle in tuta mi sopravanzano con facilità.

Non sto parlando di quelle atletiche, con le tute colorate, fiocchi sgargianti dappertutto e la lunga e potente falcata da ottocentiste olimpioniche. Parlo proprio delle signore e signorine un pochino rotondette, le fanciulle che con ogni evidenza non hanno una familiarità di lunga data con la pratica sportiva. Ecco il momento da me temuto. Me ne sto correndo per il parco felice e beato, dopo un inizio problematico in cui accusavo dolori dappertutto, ho finalmente trovato il mio ritmo, mi sto perfino rilassando abbastanza da contemplare la frondosa vegetazione mediterranea del parco Massimo Troisi… Quando ecco approssimarsi un gruppetto di Figlie di Eva in tuta, di quelle rotondette con un passo superiore al mio. Tra poco le scellerate mi affiancheranno e supereranno, senza nemmeno ansimare come il sottoscritto. Per evitare l’onta estrema mi restano un paio di possibilità. O cambiare di colpo percorso imboccando un sentiero selvaggio frequentato da thugs e zanzare anofele, sperando che le amazzoni non si buttino sulle mie tracce, o aumentare il ritmo di corsa allontanandomi dall’andatura ottimale faticosamente raggiunta. In ogni caso entrambe le circostanze contribuiranno a farmi perdere il mio nirvana sportivo.
La cosa curiosa è che sul blog ho spesso incontrato donzelle superatletiche. Qualche tempo fa mi commentava Simona corrosempre che deteneva uno dei migliori tempi nazionali sui 400 femminili juniores. Anche la bravissima marion dà l’idea di avere gambe e polmoni di tutto rispetto e perfino la signora che un dì non lontano voleva psicoanalizzarmi era capace di correre per ore senza stancarsi. Mi sono sempre chiesto che figura avrei fatto sgambettando al fianco di queste amazzoni della falcata. Probabilmente avrebbero dovuto raccogliermi con la barella e farmi la respirazione bocca a bocca (l'ultimo evento presenta palesi vantaggi se attuato da personale adeguato).

Pur essendo questo scenario spiacevole, nelle mie esperienze di footing mattutino si può verificare un incontro perfino più deleterio. Ossia posso incontrare un tizio che avrò frequentato per un paio di settimane qualche decina di anni fa, ma che chissà per quali motivi è convinto di essere quasi mio fratello. E naturalmente questo signor sconosciuto è uno che corre appena un filo al di sotto di Gelindo Bordin. In simili occasioni io dico sempre a questo mio conoscente che non posso correre con lui perché abbiamo passi e capacità atletiche diverse; quello non ci sente proprio da questo orecchio e insiste a sgambettare giurando che andrà piano. Cominciamo a correre affiancati e come al solito mi vergogno troppo di dire al mio amico di due settimane che non reggo il suo ritmo lento. Quindi mi ammazzo per tenere il suo passo, maledicendo il Cielo perché non mi è nemmeno concesso di sbuffare come vorrei. Tra l’altro questo disgraziato a un tratto mi porta vicino a una ripida scalinata del parco e mi invita a farla di corsa al suo fianco. Io, già annebbiato dalla fatica, non ho la forza di rifiutare, ed eccomi arrancare su una scala più carognesca di quella affrontata da Rocky nel suo primo film… Insomma quando finalmente riesco a liberarmi della presenza del maledetto rompiscatole sono in fin di vita e non mi bastano imprecazioni nel mio espressivo dialetto partenopeo.

C’era un altro elemento che mi infastidiva quando facevo corsa. E cioè tornarmene a casa in tuta tutto sudato, sezionato dagli sguardi ironici delle iene del mio rione, che paiono pensare “Guarda sto coglione in tuta, crede di essere a Baywatch con Pamela Anderson, invece che a Funicolì Funicolà con Titina De Filippo”. Ma il tempo è finito e affronterò in altra occasione questo secondo punto.