giovedì 30 marzo 2006

Le gambe assassine dell'agente letteraria

Di cosa parlerò, in questo post? Parlerò delle gambe (quasi sempre aperte) dell’agente letteraria che incontrai un giorno a Milano.
Dunque, sono già seduto nel salotto dell’agente letteraria. Sono teso come non mai, perché mi pare che dall’imminente conversazione dipenderà il mio futuro su questa terra. Tra poco, ne sono certo, gli anni di lavoro, le migliaia di ore spese a rifinire e revisionare i miei scritti avranno un significato o dovranno essere buttati nel gabinetto.
L’agente letteraria seduta nella poltrona di fronte alla mia, quella già ricompensata con 500 mila sudatissime lire, è una snella signora sui trentacinque, attraente, con un tono di voce da doppiatrice di scuola classica. Mi ha già ricordato che sta per partire per non so quale rinomata località di montagna; anzi ha già fatto intendere che se non fosse stato per me a quell’ora già si troverebbe con gli sci ai piedi o con un’amante dei quartieri alti che la scalda meglio di qualsiasi camino altoatesino. Indossa una gonna piuttosto corta, che si è accorciata ulteriormente da quando ha accavallato le lunghe gambe, sistemate in pose statuarie degne della più algida Grace Kelly di un film di Hitchcock.

Siamo ancora ai convenevoli, quando ecco che per la prima volta cambia accavallatura alle gambe. Nel farlo, come se accadesse per un normale evento motorio, spalanca le ginocchia e mostra quello che c’è in mezzo, che per fortuna non è uno spettacolo palese quanto quello rimirabile in Basic istinct (si vedono i collant e un paio di mutandine di un colore chiaro che potrebbe essere pure bianco).
Non faccio molto caso al gesto. Sono in preda alle più potenti emozioni letterarie che io abbia mia sperimentato. E tra l’altro sono ancora infiacchito dalla mancanza assunzione della merenda sottrattami in treno. In ogni modo sono così ingenuo in fatto di donne che non ho ben presente la dinamica precisa dell’accavallamento di gambe femminile, evento che potrebbe pur contemplare un certo spalancamento di gambe, per quanto ne so.
L’agente letteraria ha finito i convenevoli e mi comunica che il mio romanzo, certo, ha qualche spunto interessante e creativo, pur tuttavia… Mi sfugge una parte del discorso perché nella fase saliente dello stesso la mia interlocutrice modifica ancora l’intrecciatura delle sue estremità mostrandomi, per un paio di interminabili secondi, mutandine senza dubbio bianche. Deglutisco a vuoto e blatero singulti inumani. Lei spiega che i miei personaggi sono piuttosto originali e hanno una ammirevole dose di spirito anarcoide, però… e via con il balletto delle stanghe. La trama e i colpi di scena sono interessanti, ma… (gambe allargate, generosa esibizione di biancheria intima, nuovo accavallamento). Sul climax e sul conflitto risolutivo, pur apprezzando il ritmo con cui lo porto a conclusione, è costretta però ad aggiungere… cioè ad allargare…

Io mi agito dolorante sul divano. La sola (microscopica) parte della mia mente capace di articolare pensieri vagamente razionali è certa che la padrona di casa non abbia letto una riga del mio romanzo (quando le parlo di una determinata scena quella svicola perché con tutta evidenza non sa di cosa parlo). Capisco pure che, nonostante le cinquecento cocuzze incamerate per ignorare il mio romanzo, sta facendo a pezzi la mia creatura letteraria.
Cerco di ribattere, di oppormi alla stroncatura. Ma le maledette cosce aperte sono sempre lì davanti a me a impiastricciarmi la lingua. Mi sento tutto un fuoco dentro e fuori. Mi sporgo verso lei cercando di farle capire che, se i suoi sono messaggi, io so interpretarli. Quella, come vede ridurre di pochi millimetri la distanza che ci separa, serra le estremità e mi fulmina con gli occhi.
Batto in ritirata sentendomi più babbeo che maniaco. Si va avanti un po’ di tempo così. Gambe aperte e accavallature da pazzi quando me ne sto a soffrire a distanza. E gambe serratissime e folgori dagli occhi quando, ritrovato un minimo di coraggio, mi riavvicino alla mia interlocutrice cercando di non sbavare troppo dalla lingua penzoloni.

Dopo l’ennesima telefonata a cui deve rispondere (chiamate che riducono a un terzo il tempo effettivo del colloquio), la mia interlocutrice mi fa capire che la conversazione è finita. Mi comunica che sono un individuo fortunato. Sono riuscito a parlarle anche se è impegnatissima, mi porto a casa una meditata disamina letteraria (un foglietto con una decina di banali righe a commento del mio romanzo) senza dubbio utile per apportare le necessarie modifiche al mio progetto letterario (lei mi farà uno sconto da vera amica quando le farò leggere la nuova versione del romanzo… e magari per lo stesso prezzo mi fare sbirciare pure un po’ nelle regioni dove non batte il sole). E ho la sua parola d’onore che si impegnerà in tutti i modi, al momento opportuno, per spedire la mia opera alle case editrici, i cui pezzi grossi conosce come le sue tasche.
Me ne vado con la sensazione che non tutto il male viene per nuocere. Da oggi conosco un po' meglio il mondo dell'editoria.

martedì 28 marzo 2006

Che tu possa schiattare strozzata


Treno Napoli-Milano di diversi anni fa. Dovevo andare nella città ambrosiana per incontrare un’agente letteraria che aveva letto il mio romanzo a pagamento e, con qualche titubanza (certo l’interessata avrebbe preferito incamerare le mie cinque cocuzze, 500 mila del vecchio conio, cavandosela con banalità telefoniche) aveva acconsentito a incontrarmi per comunicarmi le sue sagge riflessioni sulla mia opera (ehm) letteraria.
A quell’epoca ero molto ingenuo della vita (forse lo sono tuttora). Mi sembrava di andare non a un appuntamento con una ladra (di quelle astutissime che non rischiano nemmeno la galera a differenza degli onesti rapinatori a mano armata risiedenti nel mio palazzo), ma con una persona magnanima che avrebbe potuto cambiare la mia vita letteraria e non.

Come al solito avevo pochi soldi. Avevo preso il treno che costava meno. E per non sprecare in vitto ulteriore pecunia non disponibile, mi ero fatto preparare in famiglia un po’ di vivande da portare con me. Il piatto forte era rappresentato da una merenda bella grossa con funghi nostrani, melanzane sott’olio alla napoletana e fettine di carne alla pizzaiola piene di origano e spezie. Una delizia.
Salgo sul treno e prendo posto. Meditavo di mangiare la merenda un po’ più in là, diciamo dalle parti di Firenze, in modo da farmi bastare i viveri per tutto il viaggio; tra il compenso alla ladra letteraria, il costo del biglietto e le spese varie mi si erano prosciugate le risicate finanze. La carrozza è quasi vuota, quando ecco che si avvicina una donzella. E’ una bella ragazza e non ha alcuna difficoltà a fare amicizia con gli estranei. Non è una persona dal linguaggio e dal pensiero oltremodo raffinati (inclinava un tantino sul volgare di tanto in tanto)… ma ai miei occhi quello è un dettaglio del tutto irrilevante. Tra l’altro dopo poche battute si rivela come una ragazza dai costumi estremamente liberi e ti fa quasi aleggiare davanti agli occhi la possibilità di un’avventura sessuale in quello stesso scompartimento ferroviario semivuoto.
Sì, ti dici ridendo come un fesso per qualche idiozia detta dalla nuova venuta, questa è una che ci sta. Forse potrebbe starci pure con un inguaribile imbranato con le donne come te.

Sono passati alcuni minuti che la cinguettante donzella (parla quasi sempre solo lei) dichiara che ha un certo appetito e mi chiede se ho qualcosa nella mia borsa di viaggio. Non ci sto a pensare un secondo e tiro fuori la regina delle mie vivande, la merenda con funghi nostrani, melanzane alla napoletana e la pizzaiola. Offro alla mia interlocutrice la parte migliore della merenda, quella più grossa e con più ripieno. E quindi continuo maldestro la conversazione. Curiosamente noto che da quando la donzella si è impossessata della parte migliore della mia merenda il suo interesse nella conversazione sembra scemato, ma forse è solo troppo impegnata a far lavorare le mascelle.
Passa il controllore e chiedo il permesso di allontanarmi per domandargli un’informazione di viaggio. Ci avrò messo un centinaio di secondi al massimo, ma quando torno al mio posto lo trovo vuoto. La ragazza non c’è più. Faccio qualche passo tra le file di sedili e la ritrovo sette od otto posti più avanti. Parla con due giovanotti che sembrano ameni e loquaci come lei. Si è portata appresso il suo bagaglio come se si fosse trasferita per sempre in quel nuovo posto. Noto che si è portata dietro pure la parte migliore della mia merenda e che se la divide con i due nuovi conoscenti. Fa finta di non vedermi, anche se avrà parlato quasi mezz’ora con me. Mi sale in sangue alla testa. Vorrei dirle qualcosa come “Grandissima zoc****, sputa subito il maltolto!” Ma la merenda gliel’ho offerta io, non posso negarlo… e poi mi conosco, certe volte se inizio a parlare non mi posso più fermare.

Che fare? Diciamo che la gentildonna mi ha fregato. Sono inconvenienti della vita. Delle volte ti svaligiano la casa, altre volte ti prosciugano il conto bancario (per chi ce l’ha) o ti fanno sparire la macchina che ancora devi iniziare a pagare… a me era andata bene. Mi avevano solo fregato la merenda che avrei dovuto mangiare dopo Firenze Santa Maria Novella. Mi toccava solo tirare un po’ la cinghia o barattare qualche capo di vestiario per un po’ di cibarie. Niente di grave.
Dopo quella volta, mai offerto più niente a nessuno in treno. Al diavolo, se volete la mia prelibata merenda guadagnatevela spianandomi in faccia un’onesta P38 con il colpo in canna!

domenica 26 marzo 2006

Canzoni napoletane

Molti anni fa detestavo tutto ciò che potesse collegarsi a una certa Napoli tradizionale e pittoresca. Se sentivo una canzone d’epoca, cantata da un interprete che gorgheggiasse come un frequentatore di bassi (vasciaiuolo) mi sentivo disturbare. La stessa cosa mi capitava se vedevo un numero di cabaret con macchiettisti, sia pur bravi, che si esprimessero nel campo della tradizione.
Per lo stesso motivo non mi piacevano i film di Totò o le commedie di Eduardo De Filippo. E consideravo volgare qualunque signora si vestisse da Ninì Tirabusciò e facesse “‘a mossa” mentre cantava “Addio mia bella Napoli, mai più ti rivedrò” o “Addo’ sta Zazzà” o peggio ancora “Nu iuorno me ne ietti da la casa /ienne vennenne spingule francesi”.

Il peggio del peggio era per me la sceneggiata napoletana. Non riuscivo a immaginare niente che degradasse di più l’animo umano che prestare orecchio a un certo prodotto musicale partenopeo. Quelli che ascoltavano Mario Merola, Nino d’Angelo (molto diverso dall’interprete raffinato che è diventato in alcune sue canzoni recenti), Carmelo Zappulla o Mario Trevi erano individui decerebrati che nemmeno si potevano annoverare nel genere umano. Uno dei pochi sketch classici che mi piacevano era quello che faceva “E levate ‘a vesticciolla / ‘a vesticciolla gnor no gnor no”. E mi piaceva perché si trattava di convincere a svestirsi una figliola di quelle esplosive, una che aveva argomenti più che a sufficienza per sopperire a eventuali pecche nel folclorismo verbale o in quello che io ritenevo vecchiume musicale.
A quell’epoca ero un adepto della musica rock detta progressive (anche quella demenziale di certi gruppi che facevano solo casino, bruciavano strumenti in pubblico e che adesso sono finiti nel dimenticatoio). Adoravo il cinema americano di contestazione (storie on the road, uomini da marciapiede, gente contro tutto e anche contro se stessa). Detestavo qualsiasi cosa avesse a che fare con la tradizione, specie con la tradizione della mia città.

Non so quando ho cominciato a cambiare idea.
Credo sia stato quando Renzo Arbore ha preso a mettere in musica la canzone napoletana con qualche arrangiamento moderno. O forse Arbore è venuto quando stava già mutando qualcosa dentro di me. Fatto sta che prima ho iniziato a dire che le canzoni (e i modi di essere) della napoletanità tradizionale non erano poi tanto male. Poi mi sono convinto a poco a poco che alcune canzoni sembravano o erano belle. Infine sono giunto alla conclusione che le melodie napoletane sono una delle gemme più vivide della musica di tutti i tempi. Mi sono convinto che nella mia città in campo musicale, specie in un particolare lasso temporale, si è creato un momento magico, qualcosa che accade raramente nella storia, una specie di piccolo Rinascimento limitato all’ambito musicale e a una sola città, un evento o meglio un portento che ha prodotto capolavori unici e immortali.
Nello stesso tempo in cui si verificava in me questo cambio di opinione, ho visto sotto altri occhi anche i film del geniale Totò o le commedie di De Filippo. E soprattutto ho preso ad ammirare senza remore le Ninì Tirabusciò che fanno ‘a mossa o i bravi macchiettisti che ti parlano di Ciccio Formaggio che “nun tene ‘o curaggio nemmeno e parlà”.

Le ragazze napoletane cantano nei vicoli

lunedì 20 marzo 2006

La conquista della felicità


Per prima cosa, cos’è la felicità? Sembra una domandina semplice, ma non lo è affatto, per lo meno a vedere come è percepito in genere questo argomento. Potremmo dire per toglierci dai guai che la felicità è quando sei felice. E c’è un solo modo per esserlo. Sei felice quando le ghiandole interne del tuo corpo secernono particolari sostanze che, nella tua mente, vengono associate a stati di piacere. Le sostanze in questione hanno nomi esotici come serotonina, noradrenalina o dopamina e generano funzioni stimolanti di diversi tipi.

Si potrebbe dire: tutto qui, il segreto? Non ci resta che indurre il cervello a rilasciare le sostanze che finiscono in “ina” e siamo a posto. Addio alla depressione e alle recriminazioni da Calimero sono piccolo e nero. Dobbiamo convincere la nostra mente, con le buone o con le cattive, ad ammollarci un po’ di serotonina extra, invece di romperci le scatole con tutte quelle molecole e neurotrasmettitori color depressione. Insomma, siamo sulla stessa barca, noi e il nostro cervello, se siamo felici noi le cose vanno bene pure lui. Che senso ha, fare lo stronzo moralista, invece di spacciarci di tanto in tanto qualche dose da sballo di felicità? Una bella pera di felicità sparata nelle vene un paio di volte al giorno (adrenal-ina), che cosa chiediamo di complicato?

Il problema è che il nostro sistema cerebrale è l’ultimo palloso incorruttibile di questo mondo, non fa niente che vada contro le regole (vedremo poi quali siano quelle regole). Allora non resta che fregarlo, imbrogliarlo. Già ci abbiamo tentato varie volte nella storia dell’uomo. Abbiamo prodotto e usato diversi tipi di sostanze capaci di regalarci stati di piacere, dall’alcol alle più sofisticate droghe attuali. Esse bypassano le normali procedure cerebrali migliorando il nostro umore e offrendoci stati di benessere di varia natura. Purtroppo quelle sostanze hanno un mucchio di noti e spiacevoli effetti collaterali e controindicazioni. Producono assuefazione, dipendenza, crisi di astinenza, più una sfilza lunga così di danni organici e cerebrali quasi sempre gravi o gravissimi (specie sul lungo periodo). Non pare quella la strada per conquistare l’agognata felicità, tanto più che parecchie di quelle materie prime sono pure di difficile reperibilità nell’attuale momento storico.

L’unica risoluzione, per vivere bene, per gioire, parrebbe essere quella di giocare secondo le regole. Cioè di capire quali circostanze e stati esistenziali inducano il cervello a rilasciare le bramate secrezioni endocrine… e cercare di farci trovare in quelle circostanze e in quegli stati esistenziali.
Una prima considerazione da fare è che il cervello rilascia le sostanze che danno la felicità secondo il meccanismo di premi-punizioni con cui funziona il nostro corpo e a cui si adegua il nostro comportamento. Il meccanismo di premi-punizioni non può che essere collegato alla filosofia guida che ci ha condotto a essere ciò che siamo, all’evoluzione. In sostanza il cervello è strutturato in modo da premiare i comportamenti portatori di un vantaggio evolutivo (e questa si chiama felicità) e punire le azioni non utili ai fini della sopravvivenza (e questa si chiama depressione). I principali vantaggi evolutivi sono quelli legati alla sfera riproduttiva (amore e sesso) e all’autoaffermazione (scalare la gerarchia sociale per riprodursi con partner più desiderabili e dominanti in campo sociale).
Ecco la strada. Autoaffermarci (e qui le cose vanno un po’ meglio di quanto sembri perché possiamo diventare persone rilevanti non solo nel campo dei soldi o del potere, ma anche in settori per così dire più “eterei” come l’altruismo, l’idealismo o perfino l’eroismo, possibilmente sopravvivendo alla nostra abnegazione filantropica). Beneficiare dunque del nostro elevato gradino gerarchico conquistando un partner più bello (migliori geni per la discendenza), più intelligente (migliori possibilità di autoaffermazione per i posteri diretti), più ricco (migliori occasioni per allevare adeguatamente la progenie e spianarle un posto privilegiato nella vita). Il nostro cervello riconoscerà tutti questi elementi, li apprezzerà e ricompenserà i nostri sforzi rilasciando felicità. E quella felicità rinforzerà i nostri sforzi per autoffermarci ulteriormente.

domenica 19 marzo 2006

Otto tavole a fumetti

Nella prima tavola passeggio per una strada cittadina, ma sono già preoccupato per un grido femminile di aiuto che giunge da un vicolo vicino. Il disegnatore della vignetta è bravo, ha uno stile a metà tra il figurativo di Campbell e Cho e il michelangiolesco di John Buscema, mi ha fatto più bello di quello che sono, ma sono senza dubbio io.

Nella seconda tavola a fumetti ho svoltato l’angolo. Una bella ragazza ha la bocca aperta come per parlare, ma glielo impedisce il ceffone assestatole da un piccoletto con gli occhietti cattivi, che sembra il capo della banda di balordi. Gli altri due sono un gigante con la testa pelata e orecchini dappertutto e un tizio muscoloso con le braccia nude tatuate. Il fumetto nervoso che si infila fin dentro la bocca ghignante del gigante pelato dice le cose che dicono i fumetti, mi definisce stronzo e mi consiglia di girare al largo.

Non ci sto a pensare e mi butto nella mischia, anche perché ho visto che il petto nudo della ragazza ha già conosciuto il coltello del bastardo con gli occhietti cattivi. Una mia testata nella pancia del tizio tatuato gli cancella il ghigno dalla faccia. Le sue bestemmie sono tracciate con un rapidographos con la punta di almeno un millimetro. Punti esclamativi a sazietà.

Giunti alla quarta vignetta, però la situazione sembra farsi disperata. Incasso una nespola a forma di treno merci dal gigante pelato e, anche se riesco ad attutire il colpo spostandomi indietro, non posso evitare di cascare sul sudicio lastricato del vicolo dell’aggressione. Mentre cado verso un cumulo di immondizia fuoriuscito da un cassonetto, di bocca mi esce un suono che fa più o meno Urggghhhh!!!

La ragazza non è un’oca che guarda e non fa un cazzo. Approfittando dello scompiglio che ho causato, picchia in testa al piccoletto con gli occhi cattivi una vecchia racchetta da tennis abbandonata accanto al cassonetto. Io sono cascato bene e da terra riesco a piazzare un calcio alle parti basse del gigante pelato. Il suo grido di dolore oltrepassa i confini della vignetta e ne invade due vicine.

Infine sono in piedi e completo l’opera abbattendo il pelato con un cazzotto di quelli tosti che va a schiantarsi sul suo naso.

Io e la ragazza siamo già uno nelle braccia dell’altra. L’astuto disegnatore della storia non fa niente per nascondere il prominente seno nudo della mia partner che si poggia sul mio petto. C'è un fumetto bianco a fianco della bella testa femminile, evidentemente lo sceneggiatore si riserva di scrivervi qualcosa in futuro. Un mio primo piano mostra un viso (più bello del mio, ma sono io senza equivoci) sorridente e felice.

L’ottava e ultima tavola è quella del bacio. Lei mi domanda: “Che fai? Resti o torni nel mondo da cui sei venuto? Intendo la realtà."
Non c’è posto per i miei pensieri nella vignetta, ma si può capire che sto riflettendo, sto riflettendo parecchio. Con un'altra tavola a disposizione, alcuni di quei pensieri potrebbero pure essere espressi in maniera grossolana, ma non c'è altro spazio. La storia è finita.
“Resto”, c’è scritto nell’ultimo fumetto che esce dalla mia bocca.

giovedì 16 marzo 2006

Alza la gonna, Marilyn

Finisco quanto ho da dire sul mio regista preferito Billy Wilder. Breve introduzione. Torniamo a come si percepivano i film in tivvù un po’ di anni fa. Oggi, vista l’abbondanza di cinema in televisione, un film è visto più o meno come un videogioco alla “Tomb Rider” (non a caso da molti videogiochi si traggono pellicole per lo più scadenti). Allora non era così. Quando vedevi un film ti pareva di essere l’ospite d’onore di un ricevimento elitario e raffinato, un evento unico che si teneva solo per te e di cui eri il protagonista principale.

Ecco gli stati d’animo che si avvicendavano dentro di te fino all’orario agognato del cinema a casa tua. Prima di tutto la noia, la noia indispettita che accompagnava lo snodarsi del compassato telegiornale serale condotto da Tito Stagno o Piero Angela (noia che aveva un cedimento solo in presenza delle geniali corrispondenze di Ruggero Orlando da New York, o meglio da “Nuova” York, come diceva lui). Quindi l’improvvisa accelerazione del flusso sanguigno alle prime note del Carosello, che avevano il potere di arcuare verso l’alto gli angoli della tua bocca. Ancora aumento dell’euforia all’apparizione del busto classico di annunciatrici che rispondevano agli evocativi nomi di Nicoletta Orsomando o Annamaria Gambineri. Quindi le già citate imprecazioni rivolte agli avi dei critici televisivi in calzino scuro e prosopopea multicolore.
Poi ecco l’evento. Ecco il miracolo. Ecco i primi ruggiti del leone della Metro. Ecco scorrere i titoli di testa scortati da una colonna sonora enfatica ma travolgente, ed ecco il primo meraviglioso fotogramma del film dopo l’atteso nome del regista (atteso perché dopo iniziava il film). Via, l’avventura inizia.

Primo film della seconda parte, Quando la moglie è in vacanza. Quello con la famosa scena in cui a Marilyn Monroe si alza la gonna a causa di un getto d'aria (è stata definita una delle grandi icone del secolo XX insieme alla camminata solitaria del nerovestito Gary Cooper in Mezzogiorno di fuoco), 1955. Scommetto che tutti hanno sentito parlare di questo film, sia pure per via indiretta. Mi piacevano i dialoghi e le situazioni piccanti. La sola voce doppiata di Marilyn Monroe mi faceva sognare con tutte quelle sfumature che andavano dall'oca alla donna fattasi improvvisamente riflessiva (ho l'occasione per un inciso, a mio avviso non esiste delitto peggiore di quello di ridoppiare un film vecchio e “valoroso” e di farlo con voci moderne che si esprimono con un linguaggio e un'intonazione da situation comedy tipo “Friends”: quando vedo perpetrato un crimine simile vorrei fare uno sproposito). Curiosità: quando la Monroe girò la celeberrima scena della gonna alzata, tutta Manhattan si bloccò a causa delle decine di migliaia di curiosi accorsi sulla scena del ciak (pare si fosse diffusa la voce che Marilyn sotto non indossasse niente e pare che quella voce fosse vera, almeno in un primo tempo).
Bello anche A qualcuno piace caldo, 1959, il film con la famosa battuta finale rivolta, da un corteggiatore, a un Jack Lemmon vestito da donna, ma rivelatosi uomo: “Nessuno è perfetto”. Anche questo film chiaramente ha incontrato il mio favore, anche se qui non saprei dire nulla che mi sia rimasto particolarmente impresso, tranne la sensualità della Monroe. La cosa che più ha danneggiato il film (dal punto di vista che avevo diversi lustri fa) è che io parteggiavo e mi identificavo senza remore nell’adorabile pasticcione Jack Lemmon, mentre com’è noto è Tony Curtis a godere i favori della bionda protagonista.

Citerò ora alcuni film di passaggio, non perché non siano stati belli (Wilder era assolutamente incapace di creare un prodotto brutto o deludente), ma per il fatto che non hanno lasciato un ricordo duraturo in me. L'aquila solitaria, 57, James Stewart è il transvolatore oceanico Lindeberg. Arianna, 57, il tentativo di ripetere il successo di Sabrina, un Gary Cooper un po' troppo attempato corteggia Audrey Hepburn più bella che mai. Un, due tre, 61, magnifico James Cagney, satira ambientata a Berlino Ovest sull'inefficienza dei regimi comunisti (battute di alta qualità recitate alla velocità della luce, Cagney spara ironia come negli anni 30 sparava caricatori di mitra nei film gangsteristici di cui era star indiscussa). Baciami stupido, 64, Compositore vorrebbe lanciare una sua canzone attraverso un celebre cantante (Dean Martin) suo ospite per caso. Comincia col far passare una prostituta (Kim Novak) per sua moglie e gliela butta tra le braccia. Poi, però, ha paura di rimetterci la moglie vera. Commedia amara piena di equivoci nel più puro stile di Billy Wilder. Alla fine Dean Martin porta davvero al successo la canzone del compositore, anche se credo non fosse riuscito a consumare il rapporto con la Novak (la famosa “Donna che visse due volte”, chi conosce Hitchcock sa di cosa parlo).

Rimangono due film che hanno lasciato una fortissima traccia in me. Testimone d'accusa. 57. Charles Laughton (il capitano pazzo del primo film sul Bounty, quello in cui Clark Gable era primo ufficiale) assume la difesa di Tyrone Power in un caso di omicidio. Colpi di scena a non finire. L’avvocato della difesa che si batte come un leone. Quando tutto è perduto, Marlene Dietrich con una memorabile testimonianza falsa scagiona Power. Che dire? Magnifico. In bianco e nero, naturalmente. Uno di quei film che quando finiscono te ne stai lì a guardare i titoli di coda come un fesso e a fantasticare.
Ricordo la scena in cui l'avvocato Laughton interroga Tyrone Power proiettandogli una lama di luce negli occhi con una lente o un medaglione (dice infine che Power è innocente, nessun colpevole ha mai superato la prova del suo interrogatorio: al temine scopriremo che si è sbagliato). Ricordo le pillole che la segretaria fa prendere nei momenti meno indicati al solito Laughton (mattatore del film, qualcuno ha presente la straordinaria voce che lo doppiava? Il solo doppiaggio di quei film li rendeva dei capolavori: non ci credo neanch’io, ma una volta conoscevo per nome e cognome molti doppiatori di epoca classica, adesso non mi rimangono che i nomi di Cesare Polacco e Carletto Romano). E poi i sigari e il brandy che lui fuma e beve di nascosto, ha avuto un attacco di cuore o roba simile, e quei formidabili controinterrogatori alla Perry Mason. Come potete, o quarantenni, non aver visto questo film? E come potete non averlo amato come me? Come potete non aver parteggiato per la Dietrich, quando nell'aula del processo ormai deserta Power getta la maschera da bravo giovane e la deride per essersi sacrificata al suo posto (lei deve andare in prigione pur essendo innocente)? E come potete non aver esultato quando Laughton, che doveva partire per le vacanze che la sua segretaria giudicava improrogabili, decide di rinviarle una seconda volta per assumere la difesa della Dietrich imputata di omicidio (ha ucciso l'odioso Tyrone Power in quella stessa aula di tribunale)? Ragazzi, quello non era cinema, lì non vedevi un film, quella era un'avventura meravigliosa in un mondo di dei di cui tu eri protagonista.

Ultimo film di cui parlerò Non per soldi, ma per denaro, ancora una straordinaria commedia in bianco e nero datata 1966 (siamo un pelo fuori dall’epoca che io giudico classica, ma farò un'eccezione). Una delle prime performance della coppia Lemmon-Matthau, una delle più riuscite. Jack Lemmon a inizio film è investito da un giocatore di football. Il cognato Walter Matthau (Premio Oscar come miglior attore non protagonista; a proposito avete visto E' ricca, la sposo, l'ammazzo? il film in cui l'orso Matthau corteggia quella meravigliosa miliardaria pasticciona esperta di botanica che andava sotto il nome di Enrichetta, se amate quel film io amo voi) lo convince a fingere un gravissimo incidente, con conseguente menomazione, per ottenere una cospicua assicurazione. E' un film che devo aver visto bambino o quasi e che ho cercato di rivedere invano per lunghi anni. Solo di recente ci sono riuscito e sono lieto di dire che la storia aveva conservato fascino e mordacità. I punti che mi sono rimasti impressi? La recitazione unica di Matthau, quel suo snocciolare sotto tono battute al fulmicotone. Il fatto che Jack Lemmon, da quell'ingenuo amatore di donne che era sullo schermo, fosse innamorato della sua ex moglie, pur essendo questa una sconcia e volgare persona con notevoli tendenze al libero amore (purché questo non riguardasse il suo legittimo e un po' fesso marito). E poi la squadra di tecnici assoldata dalla compagnia di assicurazione per svelare l'imbroglio; le cineprese che si inceppavano quando dovevano riprendere particolari compromettenti (qualcuno ricorderà che a un certo punto, deluso forse dalla ex moglie che svela la sua vera natura, Lemmon, che sarebbe dovuto essere in fin di vita, si mette a fare il Tarzan per la camera di ospedale arrampicandosi al lampadario e facendo sul letto salti mortali che più di un atleta avrebbe trovato indigesti). Eppure non ricordo il finale di questo film, se non il fatto che non prendono i soldi. Però doveva essere un gran bel finale o questa storia non mi sarebbe rimasta in testa tanto tempo.

Mi fermo qui, per quanto riguarda Wilder. Ha fatto anche altri film, talvolta anche splendidamente riusciti come Prima pagina, oppure confezionati con gran talento come Vita privata di Sherlock Holmes, ma andiamo nettamente fuori dell'epoca di cui volevo parlare.

The end La prima puntata su Billy Wilder

mercoledì 15 marzo 2006

Questo è il mio cadavere e questa la mia storia


Ecco l’articolo che scrissi per la signora della chat sul regista Billy Wilder. Specificai che avrei parlato solo del cinema di epoca classica, cioè il periodo che per me arriva fino agli inizi degli anni Sessanta. Citerò solo i film che ho visto e che ricordo, sono quelli visti quando la Rai era in bianco e nero o lo era il mio televisore.

Un nota introduttiva per riportare alla mente come venivano proiettati i film in tivvù parecchi anni fa. Dunque, ho già detto altrove della penuria assoluta di programmazione cinematografica nel palinsesto televisivo monopolista. Due o tre film a settimana quando andava bene, tra cui non più di uno realmente appassionante (e qui per film appassionanti si intendono pellicole alla Mezzogiorno di fuoco o alla Il mistero del falco). Inoltre, prima della sospirata visione dovevi sorbirti almeno un quarto d’ora di ciance pompose dette da un critico cinematografico rigorosamente in giacca e cravatta e gamba accavallata in poltrona mostrante calzino grigio classico e scarpa nera ugualmente classica. Gli indesiderati commentatori rispondevano ai nomi di Gianluigi Rondi, Claudio G. Fava e Callisto Cosulich e avevano la caratteristica comune di suscitare milioni di accorate suppliche al Creatore affinché si togliessero dai coglioni al più presto. Le suppliche non venivano mai esaudite. Ma le performance soporifere dei critici avevano almeno l’effetto di acuire in maniera inaudita il tuo desiderio (meglio, la tua bramosia) di cinema, di modo che quando lo spettacolo iniziava eri risoluto come non mai a recitare in prima persona accanto a gente come James Stewart o Katharine Hepburn. Forse molti di noi devono il grande amore che ancora oggi li lega al cinema alle migliaia di bestemmie che hanno mitragliato contro i saccenti critici della Rai.

Iniziamo in ordine cronologico. Il primo film che ricordo è Frutto probito del 42. Ginger Rogers (una volta tanto non balla), rimasta senza soldi, si traveste da minorenne, facendosi aiutare dal baldo ufficiale Ray Milland che chiaramente si innamora di lei. Non ricordo molto di questa storia, c'erano bei dialoghi e situazioni spumeggianti, però Ginger Rogers era una donna così matura e provocante che proprio non ci riusciva a passare per adolescente.

Il secondo film è un'opera mitica, La fiamma del peccato, 1944, una di quelle storie che mi facevano impazzire. Formidabile inizio con Fred MacMurray (qualcuno lo ricorderà, l'ufficiale fellone che ha paura di denunciare alla corte marziale Bogart in Gli ammutinati del Caine) colpito a morte che spiega la sua storia a un registratore. MacMurray è un assicuratore amante e complice in un delitto della dark lady Barbara Stanwyck. Edward G. Robinson (provate a dire, o quarantenni, che non sapete chi è) è un suo collega dalla diabolica intelligenza che lo smaschera. Atmosfere noir doc, sensualità a non finire (celebre il braccialetto che la Stanwyck indossava a una caviglia), forse mancava un po' di amore, per i miei gusti.

Giorni perduti del 45. La storia dell'alcolista Ray Milland. Film bellissimo e moderno, premiato con quattro Oscar, tra cui miglior film e regia. Visto di recente non sembra invecchiato di un giorno, consigliato vivamente a chi se l’è lasciato scappare. Scandalo internazionale, 1948. Nel 1946 una commissione del Parlamento americano arriva a Berlino per un'inchiesta sulla fraternizzazione tra americani vincitori e tedeschi sconfitti. Sferzante commedia in cui il cinico Billy Wilder se la ride alla grande del puritanesimo yankee alle prese con la Germania in rovina. La cosa più bella del film è il duetto tra l'ingenua Jean Arthur, moglie puritana di un senatore, e Marlene Dietrich, disincantata ex maggiorente del regime nazista che si industria con tutte le sue arti femminili per sopravvivere alla fame e alla rovina morale degli sconfitti. La Dietrich canta una delle sue roche e sensuali canzoni (“Black Market”) in un locale frequentato da truppe americane: donna magnifica.

Di Viale del tramonto, anno 1950, s’è detto tutto e il contrario di tutto. Film grandissimo e bellissimo come pochi. William Holden è uno sceneggiatore in difficoltà professionale. Accetta di rivedere un orribile copione che gli propone Gloria Swanson, vecchia diva del muto che sogna un clamoroso ritorno al successo. La diva proietta di continuo suoi vecchi film, i suoi ospiti sono mummie sopravvissute del muto (c’è anche Buster Keaton). Per un po’ Holden accetta l’ambiguo rapporto con la ricchissima e palesemente pazza diva (che implica anche la condizione di mantenuto della stessa). Infine cerca di lasciarla, ma la Swanson gli spara mentre sta andandosene. L’uomo cade nella piscina della villa, simbolo delle cose che aveva tanto desiderato. Posso ribadire l'emozione che provai all'attacco della voce fuori campo di William Holden, che faceva all'incirca: “Questo nella piscina è il mio cadavere e questa è la mia storia”. Nove nomination all'Oscar. Aggiungerò che Wilder ci godeva un mondo nel far interpretare i suoi personaggi morbosi ad attori che avevano gli stessi difetti. Gloria Swanson (la sua parte fu rifiutata da Mae West e da un'infinità di dive del passato) era davvero la diva retrò e pacchiana che interpretava. Erich von Stroheim (vero ex marito della Swanson) aveva sul serio certe tendenze viziose (suo il suggerimento di farsi riprendere mentre lavava la biancheria intima della sua datrice di lavoro ed ex moglie). E infine in origine il ruolo di William Holden doveva essere ricoperto da Montgomery Clift, attore che viveva con una cantante che aveva più del doppio dei suoi anni.

L'asso nella manica del 1951. Un film che mi fece stare talmente male che non lo rivedrò mai più. Il giornalista Kirk Douglas in cerca di scoop trova un uomo prigioniero in una miniera. Per scrivere i suoi articoli in esclusiva prolunga la permanenza dell'uomo sotto terra finché questi muore. Non scorderò mai la scena in cui Douglas, preso dai rimorsi per la sua condotta, ingiunge di sloggiare alla fiera da luna-park sorta sulle disgrazie del prigioniero della miniera. Film bello e amaro, ne starò sempre alla larga. Ora verrebbero Stalag 17 e Sabrina, anni 53 e 54. Di Sabrina sappiamo tutto o quasi dato che si proietta ancor oggi. Forse non è un capolavoro, ma l’eleganza con cui Audrey Hepburn si muove sullo schermo vale da sola la visione del film. Mentre l’altro film è un racconto ambientato in un campo di prigionia nazista, una delle più belle pellicole in assoluto ambientate in quel contesto. C'è una spia tra i prigionieri americani, la si scoprirà solo dopo colpi di scena ed emozioni a ripetizione. Oscar a William Holden.

In questo articolo ci sarà solo il tempo di parlare dell'Appartamento, film del 60. Jack Lemmon è C. C. Baxter, impiegato che fa carriera prestando l’appartamento ai suoi superiori in vena di scappatelle matrimoniali. Si rifiuterà quando l'appartamento dovrà essere usato per sedurre la donna di cui è innamorato, l'ascensorista Shirley McLaine. Uno dei film in assoluto che mi piace di più di Wilder. Fantasticavo follemente sulla McLaine, ero ipnotizzato dai suoi capelli cortissimi e dal suo collo slanciato, da quella sua figura così moderna. La scena che più mi ha colpito? Quella in cui Jack Lemmon obbliga a camminare per il suo appartamento la sua amata ascensorista, vittima del tubetto di tranquillanti che lei ha ingerito per una delusione amorosa (c'entrava il solito Fred MacMurray, qui nella parte di un dirigente codardo e cinico, doveva essere abbonato a un certo tipo di ruoli). Splendido film. Romantico e graffiante.
Spassose le scene in cui i vicini di casa di Lemmon lo credono un casanova impenitente a causa delle baldorie amorose provenienti dal suo appartamento. Belle le battute con cui il dottore della porta accanto gli chiede di donare il suo corpo all'università in cui lavora (il dottore stima che Lemmon abbia una media di tre o quattro ragazze per notte, e si chiede da dove prenda tutte quelle energie il suo vicino di casa). Bello quasi tutto. Bello il punto in cui un Lemmon ubriaco e deluso rimorchia una prostituta ubriaca e delusa come lui, ma non può consumare il rapporto a causa dell'ennesimo dirigente aziendale che ha necessità di usare casa sua. Bello il modo con cui Lemmon si accolla la parte di impietoso sciupafemmine per difendere l'onorabilità della McLaine, bella la festa di fine anno e i vagabondaggi notturni del nostro eroe quando l'appartamento è occupato. E' uno dei film che più mi ha fatto sognare.

Continuerò a parlare dei film del mio regista preferito in un’altra puntata.

domenica 12 marzo 2006

Il buio oltre la siepe

Siamo sotto terra, ci siete? Ritti nella bara, mi seguite? Siamo carne morta. Materia inerte. Cadaveri. La vita? Boh, prima c’era e ora non c’è più. Non c’è rimasto più niente. L’anima? Quale anima?
I vermi ci mangiano? Certo che ci mangiano. Mangiano le palpebre e gli occhi, la lingua e l’epidermide. Si pasciono delle nostre parti molli, anche di quelle che in vita consideravamo più preziose di tesori. Si satollano proprio laggiù, capite? Un’infinità di microrganismi sta iniziando la decomposizione del nostro organismo. Polvere eravamo e polvere diventeremo.
Quindi è finita? E’ il capolinea? Tutto perduto?

Snap, milioni, miliardi di ricordi e di emozioni spariti. Tutta una vita di sensazioni e di esperienze, brividi di freddo e caldo, fitte di dolore e impeti di gioia. Dio mio, quanto dolore e quanta gioia. Tutto sparito. Il primo giorno di scuola e il primo bacio, quella serata a cinema a vedere Al Pacino, quella canzone che ti fa piangere come Dalidà con un disco di Luigi Tenco, quella giornata di pioggia, sì, pure quella, con te e la ragazza della tua vita riparati sotto lo stesso ombrello, con te che cerchi l’inaudito coraggio di dirle ciò che provi, con lei che ride ed è così vicina, così dolorosamente vicina. Tutto sparito. Si chiude. Si smontano le scene. Anche lei è sparita. Anche il contatto del tuo gomito contro il suo fianco e quel seno timido che di tanto in tanto ti sfiora un braccio come se fosse per caso.
Cosa rimane? Niente. Morto il cervello e morti i ricordi. Nessuno ha pensato di conservarli da qualche parte. Non esiste in alcuna parte dell’universo una specie di disco fisso con il backup della tua memoria. Nemmeno un backup parziale con le scene banali che trovi illustrate nell’album di famiglia. La formattazione inesorabile della tua memoria e del tuo io non ha risparmiato niente. Semplicemente non ci sei più. Niente di quello che ti ha accompagnato nella vita esiste più.

Forse è così che andrà, ma la mente si rifiuta di accettare questo scenario. L’intero mio essere dice no a questa eventualità. Ci deve essere un’altra via. Ci deve essere un’altra via che conserva ciò che di buono e di bello abbiamo provato. Ci deve essere Qualcosa o Qualcuno che impedirà il totale annichilimento di ciò che siamo stati, che avrà pietà delle nostre lacrime da vivi e le conserverà da qualche parte, magari in un alambicco sovrannaturale con la scritta: “Lacrime di essere umano, vedi alla voce amore”.
Il maestro e Margherita

venerdì 10 marzo 2006

Libri a peso

La libreria Feltrinelli della mia città un giorno fece un’insolita offerta. Offriva uno sconto del trenta per cento se il peso dei libri acquistati superava una certa soglia (mi pare fossero due chili, ma non ne sono sicuro).
Subito le proteste dei soliti tromboni che infestano le librerie. E i sorrisetti furbeschi e saccenti dei clienti in fila alla cassa. “Eh, già, adesso la cultura si vende pure a peso”. “Povero mondo, dove andremo a finire!” “Ci pensate se la qualità di un libro fosse dovuta al suo peso?” E tutto questo tralasciando le varie invocazioni ai grandi della letteratura che a quell’ora si agitavano nella tomba.
Ricordo che c’era una fila lunghissima alla cassa, quel giorno. Io ero l’unico che non rideva. Ero quello che non faceva battute. Ero invece un pozzo contento. Perché avevo sotto mano un ponderosissimo romanzo storico di quasi mille pagine e avevo fondate speranze che riuscisse a superare la soglia di sbarramento oltre la quale avevi lo sconto.
Mentre mi appropinquavo alla cassa, la mia fiducia vacillava. C’era gente che con almeno quattro libri (erano libri secchi di autori che detestavo, a quanto potevo vedere) non riusciva ad accedere allo sconto. Questi tizi se la sghignazzavano contenti quando si accorgevano che l’affronto dello sconto a peso quel giorno non li avrebbe macchiati. Io però ero preoccupato. L’abbuono di prezzo sarebbe stato un toccasana per le mie tasche sempre vuote; in verità avevo fatto così affidamento sullo sconto che non sapevo nemmeno se potevo pagare il prezzo intero del libro in caso di problemi. E rimettere a posto un libro in una libreria era senz’altro più umiliante che compiere la stessa azione con una confezione di pelati san Marzano che non puoi pagare.
Comunque la cassiera mette il volume sulla bilancia e mi dice che ce l’ho fatta. Adesso rido pure io, sia pure per un motivo assai diverso da quello del resto dei clienti della libreria.
Passai altre volte alla Feltrinelli per cercare di trovare lo sconto a peso (sembrava un’offerta fatta apposta per me, dato che i libri che compravo, senz’altro per una questione di rapporto prezzo-pagine lette, erano sempre molto voluminosi). Purtroppo le proteste della somara massa tromboneggiante affondarono l’iniziativa sul nascere.
Adesso non vado quasi più in libreria, sempre per una faccenda di costi alti e tasche vuote (le mie tasche osservano un solo corso storico che non ha bisogno di ricorsi). Compro ciò che devo leggere sulle bancarelle dell’usato (c’è un punto della mia città in cui puoi trovare a prezzi convenientissimi di tutto, classici o anche best-seller poco prima in vendita in libreria a prezzi esorbitanti).

giovedì 9 marzo 2006

Io ho


Io ho gli alberi, a perdita d’occhio, alberi resinosi e odorosi, pini e aceri, abeti e larici. Ho i cespugli di bacche e le foglie morte che odorano di vita.
E io ho la città. Ho le mille luci della metropoli, grattacieli come mai ne hai visti. Le rutilanti vetrine per fare shopping contro la depressione e il mobbing. Ho sale per abbronzarti d’inverno e studi medici dove ti rifanno le tette.

Io ho ruscelli, ho la fresca acqua sorgiva che corre nei letti dei torrenti ombrosi. Naturalmente non sono tutte rose e fiori. Faccio la fame, certe notti sento un cazzo di freddo, ma proprio un cazzo di freddo, e perdo i denti come quasi come Yul Brinner perdeva i capelli. Se mi spezzo una gamba durante una battuta di caccia, sono fottuto. Per la notte, mi devo accontentare di un giaciglio fatto di frasche e foglie.
E io ho la casa con l’aria condizionata. Ho frigorifero e lavastoviglie. Il lettore dvd che legge pure i divx e il televisore lcd da 32 pollici con un tempo di reazione di 8 millisecondi. Il mobiletto bar con ogni ben di Dio e la collezione completa in mp3 piratati dei Pink Floyd e di Fabrizio De André (ho pure quella dei Cugini di Campagna, ma questo non lo dico a nessuno).

Io ho sentieri scoscesi mai percorsi da piedi umani e l’arco in spalla. Ho le gambe forti, le mani callose e la paura e il rispetto per gli spiriti della notte.
E io ho strade quante ne vuoi. Strade lunghe chilometri, piene di incroci e semafori. Mi muovo quando lo dice il semaforo. Mi metto il casco e la cintura quando me lo ordinano. Mi fermo quando mi dicono di fermarmi. Ci sono molti posti in cui parcheggiare e quando quei posti non ci sono metto l’auto in seconda e terza fila e sono contento se non mi fanno la multa.

Io ho la libertà. Forse sarà una libertà pagata a caro prezzo, dato che vivo in un mondo denso di pericoli, ma mi sento il padrone di ogni cosa che vedo e tocco… e ogni cosa che vedo e tocco la sento mia padrona. E’ mia l’acqua del ruscello che bevo, mia la corteccia d’albero che incido, miei il cielo infinito lassù e gli dei che dall’alto vegliano su di me. Mio l’orizzonte infinito. Il mondo intero? Ti devo dire chi è il padrone?
E io ho le regole. Regole per vivere bene e rispettare gli altri. Regole per votare e per divorziare. Per acquistare la casa e gettare l’immondizia, per pisciare e per ruttare, regole per pagare le bollette e fare la fila negli uffici, ho le regole perfino per morire.

Io ho una donna, non è bella e ha i fianchi troppo larghi. Non si depila le ascelle e non profuma di estratto di jojoba o di aim dei Caraibi. Non sa parlare, come io non so parlare, ma capisce ciò che voglio e io capisco ciò che vuole lei. Sa raccogliere frutta e bacche. Sa fare figli, nessuno li sa fare come lei, e li sa allevare; sa piangere quando i figli muoiono, e ne muoiono a carrettate, e sa combattere per strappare un altro giorno alla vita. Sa vivere con me.
E io pure ho una donna. E’ laureata in informatica e legge due giornali ogni mattina mentre risolve il cruciverba per esperti della Settimana Enigmistica. Sa parlare tre lingue e ridere della religione e di Emilio Fede. Sa navigare su internet e essere sexy quando va sulla chat line, sa fare sesso vero e virtuale e usare preservativi e pillole. E’ magnifica quando si indigna per il Terzo Mondo e per i politici corrotti. Ah, se tu la vedessi mentre fa battute sul Grande Fratello e ti dice in anticipo chi vincerà il festival di Sanremo! La mia donna è unica, ringrazio il Cielo per ogni giorno che mi ha concesso di vivere con lei. Glielo dico sempre ogni volta che la vedo, la mattina quando ci incrociamo per andare in bagno e la sera quando lei si volta dalla sua parte di letto e dice che ha una terribile emicrania.

Io ho amici che mi aiutano in ogni situazione. Non sono dei santi. Forse sono invidiosi, forse vorrebbero la mia donna e le mie poche cose. Però sanno che se aiutano me io potrò aiutare loro. Sanno che se muoio io forse moriranno pure loro.
E io ho amici che conoscono le più spassose barzellette del mondo. Te le raccontano come campioni di “La sai l’ultima” davanti alla birra spina di un pub con ragazze nude sul palco. Raccontano barzellette su tutto. Ne sapranno dire una di quelle memorabili anche su me, quando mi avranno licenziato o la mia donna e il fiscalista con cui se la intende mi avranno preso a calci in culo.

Io muoio presto. A trent’anni sono già vecchio. Anzi sicuro come la morte che a trent’anni non ci arrivo neppure.
Puttana ladra, il solito culo! A me mi tocca arrivare almeno a ottantacinque anni… a meno che non prolunghino ancora la vita durante la mia esistenza. E se per caso sto per tirare le cuoia anzitempo, me lo impediscono con l’accanimento terapeutico.

domenica 5 marzo 2006

Il giorno in cui il mondo ebbe paura

16 giugno 1816, villa Diodati sul lago di Ginevra, sera: il mondo (per lo meno quella della letteratura dell’orrore) sta per cambiare.
Da alcuni giorni è brutto tempo. Non si possono fare le scampagnate all’aria aperta che piacciono alla compagnia riunita in una delle sale della villa. Ci vuole qualcosa per ammazzare la noia. “Ho trovato”, dice a un tratto il più inclito dei presenti. “Organizziamo una gara. Ciascuno di noi scriverà una storia dell’orrore a sua scelta. Roba da far gelare il sangue nelle vene e salire il cuore in gola. Ci ritroveremo qui quando abbiamo finito e decideremo chi è il vincitore.”
La proposta è subito accettata dal resto della compagnia che si lascia andare a un chiacchiericcio eccitato in cui si rincorrono spunti di storie su morti decapitati o fantasmi, dame infedeli dannate all’inferno o morti non morti che si cibano dell’essenza vitale degli uomini.

L’uomo che ha parlato per primo, Lord George Gordon Byron, vate osannato e odiato in uguale misura in varie parti d’Europa, guarda con sufficienza i suoi interlocutori. Ha lanciato l’idea di una gara, ma non ci può essere dubbio alcuno su chi la vincerà. Diavolo, pensa il prototipo dell’eroe romantico, Claire Clairmont, la sua ex amante, ha il cervello poco più sviluppato di una gallina e poi alla fin fine non è altro che una “femmina”, è fuori gioco ancora prima di entrarvi. L’altra donna, Mary, destinata a diventare la signora Shelley, è senz’altro più acuta, non per niente è figlia di un filosofo radicale e di una scrittrice femminista, ma è soltanto una ragazzina viziata che probabilmente non desidera altro che sprofondare in trine e merletti per il resto della vita.
Vediamo, poi c’è il suo medico personale, John William Polidori. Sì, il grande Lord arriva ad ammettere che di tanto in tanto Polidori ha qualche idea passabile, e che forse quel poveruomo si illude di essere quasi suo pari solo perché per la maggior parte del tempo non lo tratta da lacchè qual è… Ma andiamo, pensare che quell’individuo curioso possa vincere una gara, su una storia dell’orrore o su altro, quando deve competere con gente di ben altra levatura intellettuale è pura follia!
Infine viene l’unico che gli dà qualche preoccupazione, Percy Bisshe Shelley, l’ultimo dei suoi compagni di quella bigia sera d’estate. Percy è un poeta come lui e anche bravo. Vanta una gloriosa espulsione da Oxford a causa di un opuscolo a favore dell’ateismo, e con il poemetto Regina Mab si è rivelato l’irriverente anarchico che lo stesso Lord Byron spesso cerca di apparire. Va bene, ammettiamolo, Shelley gli darà qualche fastidio, ma la vittoria nella gara dell’orrore non sarebbe sfuggita al solo degno di conseguirla.

Quella sera di giugno del 1816, Byron non può sapere che le sue considerazioni non potrebbero essere più sbagliate. La gara sulla migliore storia di terrore la vincerà nettamente la piccola e (in apparenza) insignificante Mary Wollstonecraft (tra poco Shelley). La sola che porterà a termine testarda il suo progetto (tra l’altro l’ultimo a essere partorito dalle menti dei competitori), creando uno dei romanzi in assoluto più ammirati e conosciuti del mondo, non solo nell’ambito della letteratura di genere, Frankenstein ovvero il Prometeo moderno. Un testo portato in scena centinaia di volte in tutto il mondo. Un’opera che indurrà a scrivere migliaia di recensioni quasi sempre osannanti, che varcherà la soglia del secolo e poi del millennio, trovando muova linfa nel nascente mondo del cinema, di cui sarebbe diventata una delle figure più rappresentative. Il pur ammirato Vate del Romanticismo non può sapere che prima o poi anche l’ultimo dei cattedratici si scorderà di lui, mentre il mondo non dimenticherà mai la creatura nata dalla materia morta ideata dalla fanciulla un tantino in carne che quella sera d’estate ascolta in disparte le supponenti chiacchiere dei poeti maledetti monopolizzatori della conversazione.
“Mary”, dice Byron a un tratto. “Non ve ne state in silenzio. Partecipate anche voi alla conversazione.”
“Ecco, George, mi sento troppo inferiore a voi e a Percy. Di certo la cosa migliore che posso fare è sperare di carpire un briciolo del vostro genio ascoltandovi parlare.”
“Ah, siete troppo dura con voi stessa”, ribatte il Lord anche se pensa che non ha mai sentito parole più vere di quelle. “Che cosa ne dite, John?”
Polidori si limita ad alzare le spalle perché non vuole fare da bersaglio a qualcuna delle frecciate che di tanto in tanto gli indirizza il suo signore protettore nonché paziente.
Dall’alto della sua presunzione, Byron ignora pure che anche il giovane medico, che lui un giorno tratta da lacchè e quello dopo da viceamico, creerà qualcosa di importante. Ossia un mostro dissoluto destinato a fare da impalcatura psicologica alla più importante figura in assoluto del mondo dell’orrore, al vampiro Dracula. Infatti Polidori dopo qualche giorno lascia perdere la storia con cui aveva pensato di partecipare alla gara letteraria (in verità piuttosto deboluccia), quella della dama punita con la testa ridotta a teschio per aver spiato dal buco della serratura. Ma la conversazione di quella notte straordinaria di prima estate deve essergli rimasta dentro. Qualche anno dopo, riprendendo una vecchia idea di Byron, dà alle stampe il lungo racconto "Il Vampiro". Qui si ritrovano alcune delle caratteristiche tipiche di questa figura letteraria, ossia la nobiltà dei natali, la dissolutezza e il cinismo, l’eleganza nei modi e nella parlata, nonché altri connotati ripresi pari pari dalla figura di Byron (da cui il povero Polidori è stato nel frattempo malamente licenziato e umiliato e di cui è voglioso di vendicarsi).

«Guarda, Percy», dice Byron a Shelley alcune mattine dopo osservando il cielo terso che sovrasta quella incantevole parte di Svizzera intorno al lago di Ginevra, «è tornato il sole. Usciamo a fare una passeggiata.»
I due poeti hanno già scordato la gara in cui si sono impegnati. La piccola (di età se non di fisico), geniale e coriacea Mary e, in misura più ridotta, lo sfortunato dottor Polidori (sfortunato per avere a che fare con un uomo dal carattere impossibile come Byron) non lo hanno ancora fatto.

Scrissi questo articolo per un sito di genere. Ti davano trenta euro al mese per scrivere quattro articoli a settimana. Ti dicevano che i quattro post potevano essere anche brevi e non troppo elaborati; ma d'altra parte ti suggerivano che se erano lunghi e sofisticati era meglio. Facendo il calcolo, capii che mi pagavano un euro e mezzo a post (un po' di meno in verità). Forse avrò un concetto troppo alto di me, ma non mi pare che questo articolo (considerato il tempo che ho perso per scriverlo e per documentarmi), valesse centocinquanta centesimi (cioè ancora meno di tanto).

sabato 4 marzo 2006

L'amore è morto?

Carissima, leggo te e gli altri e le altre del blog e magari me stesso e penso: non sarà che l'amore è finito?
Non sarà che questo sentimento si è evoluto per poter esistere in un mondo diverso da questo e tra persone diverse da quelle che siamo attualmente? In un mondo più arretrato, certo, ma meno caotico e veloce, meno soggetto al (distruttivo) pensiero critico e alla (funesta) crescita delle aspirazioni e delle aspettative (non solo in campo amoroso)? E tra persone meno complicate e evolute mentalmente, certo, ma meno vincolate alla volubilità e alla crescita esponenziale dello spirito di contrapposizione attuale?
Ti faccio un esempio. Noi, uomini e donne, abbiamo degli organi sessuali e delle strategie di riproduzione evolutesi milioni di anni fa. Essi erano e sono stati ottimi per tutto il periodo in cui siamo stati soggetti alla spinta evolutiva e alla selezione naturale (cioè erano il meglio del meglio quando vivevamo in arcaiche società tribali di massimo trenta individui dedite alla caccia e alla raccolta). Ma la domanda è: ciò che è (ammesso che lo sia) il meglio del meglio quando si vive in clan primitivi o poco oltre rimane sempre il meglio del meglio quando vivi in una metropoli con milioni di persone, con l'esistenza dominata da internet e dalle chat line, con i rapporti sociali e sentimentali sottoposti alla più severa critica e ironia?

Forse il modo umano di fare sesso e seguire la strada della riproduzione non è più compatibile con l’evoluta e complicata società attuale (che è quanto di più diverso ci sia da una comunità di cacciatori e raccoglitori).
Da qui al passo successivo la distanza è breve. Forse pure il sentimento dell’amore (inteso non come passione passeggera ma come strategia di lungo corso) non è più adatto al modo di vivere attuale. Forse l’amore, l’amore di cui stiamo parlando qui (che da qualunque parte lo si veda lo si deve interpretare come un sottoprodotto del fine ultimo della riproduzione), andava bene molti anni fa. Quando il contesto era diverso. Ho già scritto qualcosa sull’importanza del contesto nel definire le cose.

In verità negli ultimi cinquemila anni, e soprattutto negli ultimi duecento, il mondo fisico e il modo di organizzarsi degli uomini hanno visto i cambiamenti che tutti conosciamo. Proviamo a paragonare le Due Torri annientate anni fa con le baracche isolate dei nostri analfabeti nonni contadini. Il comportamento umano per adeguarsi allo spettacolare mutamento del contesto sociale e urbanistico necessitava di mutamenti genetici (evolutivi) paragonabili. Ma cinquemila anni, e men che meno duecento, sono un tempo risibile in campo evolutivo. Assolutamente inadeguato a favorire i cambiamenti strutturali utili a far nascere un modo di vivere l’amore più adatto ai tempi correnti. E questo senza scordare che ormai da secoli la spinta selettiva ha cessato di far sentire la sua pressione sull’animale uomo.
In una sola parola, forse l’amore e il modo di percepire questo sentimento sono inadatti agli individui che siamo (a livello genetico, e le emozioni sono dominio del patrimonio genetico, siamo gli stessi personaggi di migliaia di anni fa). Questa incompatibilità crescerà ancora di più in futuro, perché il contesto sociale muterà ancora e noi resteremo gli stessi di sempre.
E la cosa peggiore di tutto questo è che nessuno ci può fare niente.

Ho pensato di scrivere questo post mentre commentavo lo sfogo amoroso di una delle tante e intelligenti blogger di questi paraggi.
Declinazione del verbo amare. Io non amo, tu non ami, egli non ama, noi non amiamo, voi non amate, essi non amano. Eppure l'amore esiste, è così evidente, è lapalissiano.

mercoledì 1 marzo 2006

Libri resuscitati

Cara Gloria, mi sono capitate alcune cose in questi giorni. Non molto importanti, ma in qualche caso strane, almeno per me.
La cosa più strana è che ho letto un romanzo. E' Dottori di Eric Segal, l'autore di Love story. Come dice il titolo racconta le storie di alcuni medici laureatisi ad Harvard negli anni Sessanta. Dov'è la stranezza? dirai.
Beh, possedevo quel libro da quasi quindici anni (tra l'altro una bella edizione con copertina cartonata) e avevo cercato di leggerlo per un numero di volte almeno pari agli anni di possesso. I tentativi di lettura si erano sempre arenati nelle primissime pagine del romanzo (ne conta 800), e in modo brusco. Mancanza assoluta di feeling. Avevo nascosto il romanzo in un angolo convintissimo che non l'avrei letto mai (sono sicuro che anche tu hai diversi di questi libri disseminati per casa tua e che ti viene un senso di colpa grosso così ogni volta che ti imbatti in uno di essi: un libro comprato e non letto, che cosa c'è di peggio?). Bene, faccio le pulizie natalizie e che cosa ti pesco da una specie di doppio fondo di libreria, se non il bravo Dottori?

Il mai sopito senso di colpa (e forse anche la voglia di sfidare l'ignoto) mi spingono a riaprire il reperto rinvenuto. Sorpresa. Meglio ancora, stupore. In men che non si dica arrivo a pagina venti (prima naufragavo sempre intorno alla pagina cinque). Il tempo di grattarsi la pancia e stendersi sul letto e sono a pagina cento. Quindi, all'una e venti di notte, orario in cui cedo all'esigenza di dormire, sono intorno alla duecento.
Per non farla lunga: passo un giorno e mezzo sul bistrattato Segal, cioè tutto il tempo libero escluso quello per mangiare, dormire ed espletare le altre inderogabili necessità umane... e lo finisco.

La vita è un mistero, non credi? Domanda: perché uno per tanti anni e tanti tentativi muore in modo violento e perentorio a pagina cinque e un dato giorno vola a pagina ottocento senza nemmeno lo sforzo di battere le ali?

Per la cronaca il romanzo suddetto mi ha comunicato le seguenti sensazioni. L'ho trovato molto scorrevole e piacevole nella lettura. Alla fine non mi ha fatto gridare al miracolo letterario, ma mi ha lasciato contento. Ultima sensazione un po' amara, mi ha lasciato con la percezione che la vita è un po' come il Natale, non viene mai come te lo saresti aspettato; insomma, nasci, cresci, studi, ti innamori, ti sposi, fai le cazzate che fanno tutti, conquisti qualche buon successo lavorativo e qualche bella ragazza, magari (come nella storia) fai qualche scoperta medica più o meno importante e scrivi qualche brillante saggio sulla psichiatria.. e poi? E poi ti rendi conto che non erano il Natale e la vita che ti aspettavi. Ciao, Gloria.