lunedì 30 ottobre 2006

Le mutande delle ragazze sono vere o no?


Vi avviso, o avventori di questo blog. Se aborrite le mutande, specie quelle delle donne, specie quelle delle giovani donne, specie quelle delle giovani donne con il potere di far salire la pressione sanguigna oltre i livelli di guardia ad alcuni reietti di noi o forse a tutti… beh, forse questo post non fa per voi e dovreste evitare di leggerlo. Qui parleremo soprattutto di mutande muliebri, che siano slip classici, culottes, o mutandine stile liceali giapponesi, firmate Roberta, infiore, Pompea o Playtex. E ci porremo, cortesi e attenti amici del blog, un fondamentale quesito a proposito di questo indumento intimo (intimo si fa per dire, come vedremo). Solleveremo un dilemma più pressante e lancinante di quello dei monologhi scespiriani. Ecco, prendete un bel respiro. Se siete pronti, io vado con Shakespeare.
Allora, le mutande che ci mostrano le adolescenti per strada (le adolescenti vere e quelle finte), sopra la vita bassa dei jeans, sono vere o no? Sono veri capi di vestiario che puoi toccare e all’occorrenza strappare trovandoti in particolari stati d’animo e avendone avute le necessarie autorizzazioni… o non lo sono? Essere o non essere? Se sia più nobile d'animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell'iniqua fortuna, o prender l'armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli…
Insomma, ste cacchio de mutande delle guaglione moderne so’ robba ggenuina o l’ultima delle patacche rifilateci in questo agonizzante mondo di reality show?

Facciamo un passo indietro per inquadrare il problema. Orbene io sono un essere umano. Non mi catalogherei tra i più eccelsi e saggi esponenti di questo genere animale, ma dispongo di alcuni attributi dell’essere senziente se non pensante quivi evocato. Ossia sono fornito di capacità di locomozione e della facoltà di rapportarmi al mondo attraverso i cinque sensi. Il corollario della nostra allocuzione è che per strada, utilizzando uno dei suddetti sensi, posso guardarmi intorno mentre deambulo.
La domanda scontata è: cosa vedo in strada? Ma niente, le solite cose! Automobili intrappolate nel traffico, grigi palazzoni metropolitani, cassonetti di immondizia non ritirati… ah, quasi scordavo, come tutti vedo pure un mucchio di mutande. Ne visiono a decine per passeggiata, forse a centinaia. Mi riferisco, sagaci amici del blog, a quella striscia di stoffa, di spessore variabile dai due ai venti centimetri, che fuoriesce dalla vita bassa dei jeans in voga tra le adolescenti. Tra l’altro ho notato che l’occhio tende a posarsi con maggiore frequenza su quella striscia di stoffa che su altri soggetti visivi. Ho rilevato inoltre che detta osservazione è associata a fenomeni metabolici bizzarri, quali un’accentuata cadenza respiratoria e una certa fissità dello sguardo coeva di un aumento della temperatura basale. Ma basta, è già tempo della riflessione successiva.

Dunque avevo sempre pensato che le giovani mutandine che vedevo, e con esse il pizzo e i ricami quando c’erano, fossero roba vera. Cioè appartenessero a veri indumenti intimi usati dalle diaboliche adolescenti (o post-adolescenti) che li esponevano. Nessuno ha mai obiettato contro questa mia congettura e quindi l’ho considerata una verità acclarata come la sfericità della terra o la sua collocazione periferica nella Via Lattea.
Poi un giorno mi accadde di entrare in una boutique (era un negozio di abbigliamento che svendeva la merce per chiusura, cioè il solo esercizio commerciale che possono permettersi le mie tasche). Lì feci una scoperta che oso definire copernicana! Accanto ai jeans maschili che osservavo, ce n’erano alcuni riservati al gentil sesso, di quelli scoloriti o pieni dei colorati fronzoli preferiti dalle liceali… E questi jeans avevano un pezzo di stoffa cucito sulla vita bassa che simulava un paio di mutandine femminili messe in bella mostra! Anzi non si trattava nemmeno di un pezzo di stoffa cucito, ma la striscia pseudo-mutandifera era parte integrante del jeans. Scoprii in quel caso che si producevano pantaloni con annesso lembo di tessuto simile a slip da donna occhieggianti dal vestiario.
Ricordo che vacillavo con questo paio di jeans femminili in mano, ferito nelle mie più sacre convinzioni esistenziali. Nello stesso tempo mi sentivo sezionato dagli sguardi preoccupati delle commesse della boutique, le quali avevano l’aria di non aver afferrato i seri moventi scientifici cagionanti il mio disagio. Mi domandavo: vuoi vedere che in tutto questo tempo non ho mai visto un paio di vere mutande da donna, ma solo grossolani pezzi di stoffa destinati a farsi beffa di allocchi come il sottoscritto?
L’interrogativo era così pressante che, lasciati perdere i fronzoleschi jeans femminili, rivolsi la mia attenzione agli slip che ammiccavano dai pantaloni delle due commesse (ebbene anche costoro seguivano la profonda filosofia della Libera Mutanda in Libero Stato). Il mio novello interesse se possibile aggravò l’inquietudine delle commesse nei miei confronti. Ma la parte peggiore fu che - pur sbirciando le strisce di stoffa incriminate con l’ausilio delle più sofisticate tecniche da guardone - non riuscii a diradare il mistero. Non si capiva se le mutande sopra i jeans fossero vere o false. Nell’occasione considerai di sfuggita l’ipotesi di allungare una mano e palpare gli indumenti in questione onde averne preziose informazioni sulla fattura. Ma conclusi che le commesse avrebbero avuto qualche obiezione a farsi esaminare in cotal modo da un individuo febbricitante quale io dovevo apparire nella circostanza.
Da quel momento, questo imperativo interesse scientifico mi ha indotto a domandarmi, osservando le vite basse dei jeans delle adolescenti acquartierate in ogni cantone metropolitano: sono vere mutande o no, le loro?

Devo purtroppo lamentare che il prevalente atteggiamento femminile riscontrabile verso me è poco incline ad assecondare la mia sete di conoscenza. Proprio un paio di giorni fa, a una fermata d’autobus, ronzavo attorno a due ragazze scrutando, con le solite tecniche osservatorie vieppiù perfezionate dall’esperienza, il punto in cui occhieggiavano le chiare strisce di stoffa. Ebbene le due fanciulle, poco entusiaste del mio interessamento, palesavano la loro contrarietà con sguardi infastiditi, talché a un certo punto ho dovuto dichiarare la mia sconfitta e ritenere per il momento irrisolvibile il dilemma che mi angustia.

sabato 28 ottobre 2006

Dio mio, come canta!


Si può amare una tastiera da computer? Certo che si può! Io la amo. La accarezzo, le parlo e a volte la bacio pure. Ieri la tastiera non voleva andare, si bloccava, mi esasperava. Era già un po’ di tempo che faceva le bizze. Ho dovuto aprirla e pulirla (avevo paura di farlo perché questa mia tastiera è speciale per me, non so proprio come farei senza). E’ incredibile la quantità di sporcizia che si può annidare sotto i tasti. Ora la mia fedele e fidatissima amica di lavoro va che è una bellezza. Sto adoperandola in questo momento ed è una musica sentire il click limpido che produce ogni singolo tasto.
Ho comprato e ancor più adoperato un numero incredibile di tastiere da computer nella mia vita. A decine. L’unica con cui mi trovo a mio agio è questa qui, che era addirittura associata a un computer 386. Ai non esperti ricordo che il computer 386 si vendeva intorno al ‘91, anche se io ho comprato la macchina in oggetto di seconda o terza mano alcuni anni dopo. Vendetti poco dopo il 386, ma la tastiera era così confortevole che non me ne sono mai voluto privare. Per descriverla, basterà dire che è una di quelle tastiere che “canta”; cioè, pigiando ogni singolo pulsante si origina un click musicale che ti agevola la digitazione. Inoltre i tasti sono ergonomici, cedono nella giusta maniera sotto i tuoi polpastrelli, lo fanno pure in questo momento comunicandomi attimi di gioia. Quando usi una tastiera moderna, invece, specie quelle economiche, non senti nessun “canto”, ma solo un suono sordo, sgradevole, mentre le tue dita si impantanano su una superficie ingrata, tipo sabbie mobili, azione che alla lunga ti uccide provocandoti pure non pochi problemi ai polsi o alle braccia (tra cui il famoso tunnel carpale).
Ho aperto diverse tastiere nella mia carriera di digitatore da computer. E questa magnifica compagna attuale è costruita con una tecnologia del tutto diversa da quella in uso ai nostri giorni. E’ molto più meccanica, ogni singolo tasto ha un suo proprio automatismo retrattile, invece della mascherina di plastica che svolge questa funzione collettivamente nelle tastiere moderne. Insomma, amo la mia compagna di lavoro come se fosse una diva del vecchio cinema, dotata di più fascino di certe scostumate attrici moderne.
Per correttezza devo dire che anche ai nostri giorni esistono tastiere che “cantano”, l’ho letto su una rivista specializzata, ma il loro prezzo è molto più elevato di quello degli stessi prodotti di fascia economica (tanto da essere proibitivo per me).

Nota finale: Dio mio, come canta! :-)

venerdì 27 ottobre 2006

La freccia nera fischiando si scaglia


C’è un solo modo per iniziare a parlare della “Freccia nera”, indimenticabile sceneggiato televisivo di decenni fa, è questo: “La freccia nera fischiando si scaglia / e la sporca canaglia un saluto ti dà”.
Sono le parole di una delle sigle televisive più amate e cantate di tutti i tempi, almeno in questo paese. All’epoca la stragrande maggioranza della popolazione italiana, comprese anziane ultraottantenni con almeno due infarti alle spalle e mocciosi piagnucolosi che a stento dicono mamma, sapevano citare almeno un verso di quel trascinante motivo. Io conoscevo tutta la canzone da cima a fondo, inclusi i fischi e l’epico “la-la-la” del coro dei briganti della foresta, e non ero per niente un caso raro in quell’Italia che fu, l’anno dello sbarco sulla luna e dello sceneggiato televisivo che ha riscosso il maggior indice di ascolto di tutti i tempi in queste contrade, sedici milioni e mezzo di telespettatori di media (altro che Elisa di Rivombrosa).

Due parole sulla storia. Regia del mitico Anton Giulio Majano, autore di opere mai dimenticate come “La cittadella” o “Delitto e castigo”. Il giovane Dick Shelton (l’attore Aldo Reggiani) è dibattuto fra le avverse fazioni degli York e dei Lancaster al tempo della Guerra delle Due Rose in Inghilterra. La bella e ribelle Joan Sedley (Loretta Goggi), si traveste da uomo per sfuggire a un matrimonio non voluto. Battaglie, tradimenti, eroismi, passaggi segreti, intrighi e briganti della foresta fautori della lotta alla tirannia.

Quando si parla della “Freccia nera”, ci sono molte cose che sei obbligato a dire. E le devi dire nell’ordine che segue.
Devi confessare che all’epoca eri innamorato follemente di Loretta Goggi (amore che continua tuttora quando la rivedi in televisione), anche se tutti ti consideravano un poppante a cui regalare odiose caramelle alla fragola. In questo tuo delicato sentimento eri in buona compagnia, perché qualsiasi individuo maschile dotato di raziocinio non poteva evitare di sognare di trovarsi in compagnia della Joan Sedley travestita da maschio (e di difenderla dai molti pericoli di cui abbondava la tumultuosa Inghilterra del Quattrocento). Inoltre ritagliavi le immagini della dolce Loretta diciassettenne da qualsivoglia giornale e rivista di gossip alla “Grand Hotel” e sognavi di cavalcare con lei in tenebrose foreste medievali, anche se l’unica volta che avevi visto un cavallo dal vero ti aveva fatto una paura mica da ridere.

Seconda riflessione obbligata: il tuo desiderio spasmodico di impugnare una spada vera e enorme con queste mani vibranti di emozione. La spada vera e enorme serviva per essere brandita in groppa a un destriero nella tua mente, sotto un’armatura di cotta di maglia, con tanto di stendardo di York o Lancaster (pur avendo seguìto lo sceneggiato con devozione e chiesto lumi agli adulti, non riuscivi mai a capire quale fosse la Rosa dei buoni, se quella rossa o quella nera, ma tanto non aveva importanza). Il desiderio di menare fendenti o stoccate ai malvagi diventava necessità insopprimibile quando assistevi alla sigla iniziale dello sceneggiato, da non confondersi con la canzone finale dei Fratelli della Foresta. La sigla iniziale era un travolgente motivo epico composto dal valoroso maestro Riz Ortolani, accompagnato da scene di cavalieri medievali che si affrontavano a viso aperto tra castelli in fiamme e sfondi di devastazione bellica. Peraltro il motivo di Ortolani a un tratto deviava magistralmente dal registro epico-guerresco a quello romantico, inducendoti senza indugio a rinfoderare spade e sogni di gloria e a cercare con gli occhi una figura femminile capace di farti palpitare il cuore.
Poiché la possibilità di procurarti una vera lama medievale era piuttosto remota per te ragazzino in calzoncini corti di un’Italia lontana, eri costretto a ripiegare su una spada di legno, costruita con amore e soprattutto con l'aiuto dei tuoi amichetti più portati ai lavori manuali. Ovviamente i tuoi amici avevano già una spada analoga, ben più solida della tua, forgiata con robuste assi di legno sottratte ai padri falegnami, piallata e rifinita con cura, ed erano ansiosi di affrontarti in un duello all’ultimo sangue. Tale duello era preceduto da almeno mezz’ora di dispute su chi avrebbe dovuto interpretare la parte dell'ammirato Dick Shelton (il perdente della disputa, in genere era quello con l’arma migliore che si sentiva in vena di magnanimità verso i disgraziati forniti di mazze di scopa semibruciate, ripiegava sulla figura del collaudato Ivanhoe).

La terza e ultima considerazione a cui sei costretto parlando della “Freccia nera” televisiva (ce ne sono da fare altre, ma quelle almeno sono frutto di una tua libera scelta) è la inaudita, impressionante bravura dei Cattivi di quello sceneggiato. A memoria d’uomo non si è mai vista una storia televisiva con cattivi tanto ispirati e convincenti. Prima di tutto c’e Arnoldo Foà nella parte di Daniel Brackley, signorotto inglese pronto a tradire e a uccidere chiunque per sete di potere (“vende” in matrimonio anche la povera Loretta Goggi). Foà ha tra l’altro fatto uccidere il padre di Aldo Reggiani, che ignaro del delitto gli è fedele servitore. Che dire del machiavellico Arnoldo? Magistrale. Indimenticabili i suoi ghigni, soprattutto unici i suoi inarcamenti di sopracciglia e quelle sue mimiche facciali così convincenti da farti credere che la malvagità era una componente naturale della vita. Foà recitò così bene la parte del cattivo da essere odiato da una generazione di telespettatori quasi come certi “fetienti” della sceneggiata napoletana.
Eppure anche il bravissimo Arnoldo trovò dei competitori agguerriti nel suo stesso cast. Prima di tutto Adalberto Maria Merli nel ruolo del sanguinario e gobbo duca di Gloucester(Rosa Rossa o Rosa Nera? Boh, vattelo a ricordare). Merli esibiva un sguardo diabolico perfino superiore a quello di Foà e uccideva, a differenza del personaggio di Daniel Brackley, per il semplice gusto di farlo (impressionante il modo in cui trafigge a sangue freddo alcuni nemici ormai vinti e imploranti grazia).
Non c’è due senza tre, ecco ancora un valente attore nella fazione dei cattivi, ossia il caratterista Alberto Terrani nel ruolo di Lord Shoreby, l’ultimo pretendente di Loretta-Joan, il quale dà un’interpretazione della cattiveria più tendente al frivolo e alla mondanità che alla crudeltà pura e semplice. Basta così? No, c’è posto anche per Tino Bianchi (sir Olivier, vescovo corrotto) e Leonardo Severini (Bennet Hatch), ossia i complici delle malefatte giovanili del terribile Foà, che a differenza di quest’ultimo sono dilaniati dai sensi di colpa (all’epoca questa sfumatura psicologica era parecchio dura da mandare giù: uno o è cattivo o non lo è, si diceva un certo ragazzino mangiatore di caramelle, e se lo è come fa a provare rimorso per le sue malefatte?)
Continua, ma ci vorrà tempo per la seconda puntata…

Riflessione sulla “Freccia nera” moderna tratta da un mio commento. Qualche sera fa volevo vedermi la nuova "Freccia nera" data in tivvù. Mi spingeva il ricordo del mitico sceneggiato oggetto di questo post. Dunque vado per guardare la prima puntata e noto il protagonista, tal Scamarcio, che si rivolge al padre con un sottofondo di accento romanesco che parrebbe più adatto a inveire a li mortacci vostri che a recitare Stevenson. Vabbé, mi dico, un semplice caso, non sottilizziamo troppo. Nella seconda scena si vede un'amazzone a cavallo (poco prima l'attrice che impersona il personaggio era stata intervistata a "Striscia la notizia" dimostrando un quoziente intellettivo degno di una velina) che tende l'arco e galoppando a briglia sciolta scocca una freccia... che trafigge una mela posta su un palo a un centinaio di metri di distanza.
Qui ho spento il televisore dicendomi, dovevano essere passati un paio di minuti: "Basta con le cazzate!".

mercoledì 25 ottobre 2006

Peggio i cani cani o i cani umani?


Non ho mai avuto a che fare con i cani in vita mia, se non in occasioni spiacevoli. Trovo i cani rumorosi, molesti e spesso ne ho paura. C'è un parco dalle mie parti in cui un grosso cartello avverte che non sono ammessi i cani e ogni volta che lo vedo penso che sia la migliore idea avuta da quelli del parco, che tra l'altro è tranquillissimo. Prenderei a calci negli zebedei i proprietari di cani grossi e notoriamente aggressivi che li portano in giro senza museruola. Prenderei due volte a calci negli zebedei i padroni dei cani sopra descritti quando, accorgendosi della tua apprensione causata dalla belva assassina a loro affidata, ti dicono ridacchiando: “E’ bravissimo, non farebbe male a una mosca”. Salvo accorgersi poco dopo che l’angioletto a quattro zampe ha sbranato vivo un povero bastardo che passava di lì.
Veramente ammazzerei i padroni di certi cani. I padroni, non i quadrupedi. Sono quasi trent’anni che sono costretto a passare per una stradina che a un certo punto si restringe costringendoti a rasentare il cancello di un’abitazione. Ebbene, da quel cancello sono trent’anni che salta fuori un demoniaco botolo che ti ringhia sul viso (il figlio di una cagna – non è sempre lo stesso per ovvi motivi temporali - sale su un muretto per essere a livello della tua faccia). In realtà il cane non salta fuori ogni volta, ma solo una su dieci o una su venti. Però ogni volta che sono costretto a percorrere i venti metri della cancellata sono sempre in apprensione, attendendo il proditorio attacco canino (che, come nei film dell’orrore, si verifica sempre quando meno te lo aspetti). Non so chi abiti nella casa del botolo, ma se qualcuno la radesse al suolo e mettesse ai ceppi gli inquilini, ne godrei. Se Gesù ha preso quaranta frustate, rifletto inoltre, alcune dozzine di carezze col gatto a nove code sarebbero una medicina sacrosanta per la schiena di certe persone.
Facevo un tifo del diavolo per il bravissimo ministro Sirchia quando dichiarò guerra ai cani di grossa taglia e ai loro padroni di immensa scostumatezza. E’ un’indecenza che tu debba trovarti davanti pit bull e soci a ogni angolo di via, senza museruola e spesso senza guinzaglio. E’ un’indecenza che tu ogni volta debba cambiare strada per non trovarti a tu per tu con le fauci del mostro canino. E’ un’indecenza che tu debba far finta di niente quando il carognesco cane portato a spasso ti abbaia contro, mentre l’ancor più carognesco padrone se la ride sotto i baffi per come ti sei irrigidito.

Ultima sui cani (ma potrei scriverci un romanzo su questo argomento). Nel mio palazzo vivevano il più stronzo padrone di cani della città e la belva canina più aggressiva e assetata di sangue umano, un pastore tedesco che avrebbe fatto una gran figura al guinzaglio di un nazista con le croci uncinate fin dentro il culo. Il mio palazzo non ha l’ascensore. Ciò significa che sia il cane che io (e gli altri inquilini dello stabile) dovevamo incrociarci spesso e volentieri per le scale. Il peggio del peggio era quando il nazista e la sua belva calavano dall’alto e tu eri costretto a salire (l’idea di darti a una fuga subitanea ti sembrava umiliante), schiacciandoti alla ringhiera nell’illusione di sfuggire alle fauci canine. Non scorderò mai il ghigno satanico del padrone del cane, quando ti assicurava che la sua creatura schiumante di rabbia era incapace di torcere un capello umano (l’assicurazione veniva data sempre quando il pastore tedesco ti si avventava addosso approfittando della favorevole ubicazione settentrionale).
Naturalmente sia prima di scendere le scale sia, soprattutto, quando dovevi salirle, tu tendevi l’orecchio alla maniera dei Comanche per cogliere indizi che tradissero la presenza della belva assassina, pronto a posticipare uscita o rientro per tutto il tempo necessario. Ma talvolta questo pur lodevole artificio si dimostrava insufficiente a evitarti incontri ravvicinati del tipo terzo o quarto. E dovevi affrontare il mostro da posizione svantaggiosa, sorbendoti per di più il sarcasmo del nazista proprietario di cani.
Questo andazzo è andato avanti per anni. Poi un giorno capitò un fatto epocale. Mi affacciai alla finestra notando che due cani di grossa taglia si affrontavano in una lotta senza quartiere. Seguivano l’aspra contesa gran parte degli inquilini del caseggiato, affacciati come me alla finestra. Ben presto fu evidente che il pastore tedesco del nazista aveva la peggio in quello scontro, dovette battere in ritirata umiliato e parecchio malridotto. In quel momento accadde qualcosa che mi fece capire che io non ero il solo – per mia mancanza di coraggio come avevo creduto fino ad allora – ad aver sofferto degli incontri ravvicinati con la belva ospite del mio palazzo. Infatti, quando fu evidente la disfatta del cane scostumato, si levò un applauso fragoroso da tutte le finestre, accompagnato da cori di giubilo per la sorte toccata all’odiato cane, il cui padrone, una volta tanto non sghignazzava, ma doveva subire i ghigni altrui.

lunedì 23 ottobre 2006

Il clamoroso ritorno del mio angelo custode


La lettera di protesta. - A chi la devo scrivere, questa dannata lettera? A san Pietro, all’arcangelo Gabriele?
- Guarda, nel mio ufficio di tuo indefesso consulente esistenziale, ti esorto a ponderare certi…
- … ma come cazzo parli, stramaledetto pennuto celeste? Ufficio, consulenza! Nel caso tu lo abbia scordato, se facessi vedere il mio naso a dieci chilometri da Wall Street mi prenderebbero a calci in culo come l’ultimo dei barboni. L’unica giusta che hai detto è che sei un fesso…
- … come cercavo di segnalarti prima del tuo zotico intervento, in qualità di tuo angelo custode ti ammonisco a riflettere, nell’auspicabile interesse della tua armonia psicofisica, di rifuggire dall’impulsività. Inoltre oso dire che il tuo inidoneo modus vivendi inficia palesemente la possibilità di procurarti un’adeguata...”
- “… gnocca! Fica, bernarda, passera! Questo è ciò che cerchiamo. Cerchiamo un buon posto in cui parcheggiare…
- Ma che dici?
- … in cui posteggiare, situare, allocare…
- E ora che significa quel tuo gesto sconcio con il braccio?
- … riporre, introdurre, incuneare? Insomma dimmi tu dove lo devo mettere questo affare qui sotto prima che ci crepi sotto il naso per mancato utilizzo!
- Non ho parole per stigmatizzare la tua grossolanità.
- Non tentare di svicolare con quella tua parlantina da Oscar il maggiordomo di Elisabetta! La lettera di protesta è già bell’e fatta. Devo trovare solo il destinatario. Ma tu ce l’avrai un principale da qualche parte, no? Ho capito, taglio la testa al toro e scrivo a Lui, il Capo in persona.
- Ma caro ragazzo, tu sragioni. Il Superiore ha già un sacco di gatte da pelare! Pensa al Medio Oriente, alle guerre, all’effetto serra, alle scalate bancarie fatte dai furbetti di quartiere e dai furbastri da city finanziaria… Per tacere dei test nucleari coreani e dei vaneggiamenti di quello squilibrato iraniano. Come puoi pensare che il Comandante perda il Suo prezioso tempo per cercarti, ehm, la ragazza che non sei capace di trovarti?

L'angelo custode di ufficio. - Eh no, babbeo di un angelo ! La donzella non la trovo perché mi metti i bastoni tra le ruote. Ma se riesco a mandare la lettera di protesta a Chi di Dovere, ti mettono spalare la merda dei beati…
- Povere orecchie mie!
- … mentre io trovo un’opportuna sistemazione per il mio smorto amico. Guardalo lì. Se lo lascio avvilire un altro po’, questo qui si lascia morire di stenti. E sono sicuro che appena si sarà diffusa la notizia della sua prematura dipartita, fameliche moltitudini femminili mi si fionderanno addosso per violentarmi.
- Ora esageri.
- Altroché! Sciami donneschi si avventeranno sul mesto cadavere tentando di rianimarlo.
- Cerca di controllarti.
- Si accaniranno sulle sue spoglie senza pietà. Gli praticheranno la respirazione bocca a bocca, il massaggio cardio-uccellifero, l’elettroshock coglionifero.
- Sta’ calmo. Ti fa male agitarti così.
- … E alla fine, quando le inappagate Figlie di Eva comprenderanno che niente potrà ridare vita al Lazzaro inguinale, lo divoreranno per la rabbia. Se lo sgranocchieranno fino all’ultimo brandello. Ah, come soffro!
- Se non me lo proibisse la mia specchiata deontologia angelocustodesca, a quest’ora ti avrei già abbandonato alla tua negatività!
- E che ti sto chiedendo da un’ora, sottospecie di gallinaceo celeste? Ah, ma non pensare che io scordi la mia lettera di reclamo. Eccola qui, inizia con “Carissimo Dio”...
- Primo errore. Lui non sopporta questo tono intimistico da chatline, è un tipo all’antica e non ti sognare di rivolgergli formule come “xké”, “azzzzz” o peggio ancora “wow” perché è capace di fulminarti seduta stante…
- E allora la scrivo così: “Spett. Egr. Ill.mo Sig. Onnipotente Creatore del Cielo e della Terra…”
- Ottimo inizio, se cerchi di farti assumere part-time presso l’Assessorato alla Balneazione di Vietri a Mare o nelle esattorie palermitane degli eredi dei fratelli Salvo.”
- “… vorrei ricusare gli uffici dell’angelo custode che graziosamente Ella mi ha assegnato alla nascita a cagione della sua acclarata incapacità. Chiedo rispettosamente che detta figura assistenziale sia sostituita da altro angelo custode o, ove ciò non sia possibile, che io sia sollevato dall’obbligo di convivere con questa categoria professionale.”
- Ah-ha! E poi dici che sono io quello che parla il burocratese! Credi di stare impugnando la sentenza di una Corte d’Assise? Inoltre non puoi cambiare l’angelo custode come faresti con il tuo avvocato! Cosa credi che quando ne hai preso uno a calci in culo te ne assegnino un’altro di ufficio?

Usufrutto della sgnacchera in usucapione. - E ora che accidenti fai?
- Strappo la tua lettera, non vedi? Basta con le bambinate.
- Tanto ho tutto qui in testa. Dopo la riscrivo pari pari e la spedisco.
- E dove, di grazia? All’indirizzo ufficio_angelicustodi@paradiso.com? No, lasciamo perdere le recriminazioni. Ho giusto alcune proficue idee per, come dire, lenire il tuo disagio psico-ambientale.
- Se significa che sai come procurarmi una gnocca sono tutto orecchi.
- Prima di tutto, penso che dovremo stilare una lista di… ecco, potremmo dire di possibili cooperatrici esistenziali.
- Stai mica parlando di fare un elenco di donzelle che te la danno?
- Io non mi esprimerei mai in tal guisa, ma per una volta soprassediamo pure sulla tua libera fraseologia. Insomma quante, ehm, pollastre umane conosci inclini a… cedertela in usufrutto?
- Parli di usufrutto mediante testamento, rogito o usucapione?
- Non mi sembra il momento per il tuo spirito di bassa lega. Allora la scrivi?
- La lista delle cooperatrici? Ce l'hai una penna con molto inchiostro?
- E' un'altra delle tue battute?

Continua...

giovedì 19 ottobre 2006

Quante persone verranno al mio funerale?


Dalla finestra ho visto un corteo funebre passare nella strada di sotto. Era molto sobrio, una macchina nera davanti e alcune persone, poche, che seguivano l’ultimo viaggio del loro caro scomparso (ricordo soprattutto una signora vestita di chiaro che portava un bambino nel carrozzino). La visione del corteo funebre mi ha turbato, cioè mi ha turbato soprattutto la scarsezza del seguito umano. Ho pensato: succede così, vivi molti anni, fai sogni degni di un supereroe, conosci tante persone, ti innamori a ripetizione della gente più assurda… poi muori e al tuo funerale si presentano una dozzina di persone che hanno l’aria di volersi trovare altrove.
La scena vista dalla finestra mi ha colpito tanto da spingermi a scrivere questo post di getto. Mi sono chiesto come sarà il mio funerale quando sarà il momento. In verità mi è sembrato di vederlo per un attimo mentre mi sporgevo dal davanzale. Facevo l’ultimo viaggio in una macchina mortuaria semplice, economica, con poche persone al seguito, forse perfino meno di quelle del funerale di stamattina. Non mi dispiaceva, mentre avevo quella visione, di essere morto (capita a tutti prima o poi), ma trovavo davvero avvilente che così poche persone avessero sentito la mia mancanza. Insomma, è un’ingiustizia andarsene nell’indifferenza altrui. So che può sembrare un pensiero ridicolo: se sei giunto al capolinea della vita, che cavolo te ne frega se al tuo funerale di presentano tre individui sbadiglianti o folle da stadio?
Ho provato sentimenti analoghi anche girando sul blog, specie imbattendomi in siti abbandonati da tempo (eventi che mi inducono sempre a pensieri luttuosi). C’è una ragazza che ha abbandonato da alcuni mesi, ho parlato spesso con lei, le piacevano le canzoni di “Mary Poppins” (soprattutto lo “Spazzacamin” o quella della pillola che va giù con un poco di zucchero). Sul suo blog abbandonato ci sono si è no cinque commenti e due glieli ho messi io. D’altra parte ci sono i morti “fortunati” come chi ha abbandonato il blog da anni e trova ancora chi gli lascia segni del suo passaggio.
C’è chi muore ricordato e benvoluto e chi non trova manco un disgraziato che gli metta un crisantemo appassito sulla tomba.

lunedì 16 ottobre 2006

Se mi ami, non ti amo


Sono vestiti di nero funerale, si strappano i capelli a ciocche, si lamentano e singhiozzano. Fanno pena. Ti fanno sentire in colpa perché non soffri come loro, anche se non ridi di gusto da tre anni, da quando il tuo vicino di casa odioso si è rotto una gamba cadendo per le scale. Come, che cosa gli è capitato? Questi pietosi individui nerovestiti amano ma non sono riamati. Il fato si è accanito contro di loro, facendogli incontrare i più canaglieschi e irriconoscenti partner sentimentali che calchino il suolo terrestre. Hanno avuto la sfiga di trovare sul loro cammino uomini (o donne) senza cuore, che li hanno spremuti ben bene per poi involarsi. Che sfortuna, che iella!
Ho sempre faticato a capire i lamenti della gente meravigliata del non amore altrui. Perché si lamentano costoro, ma soprattutto perché si stupiscono? E se non ci fosse niente di strano nell'amare una persona senza esserne riamati (senza esserne riamati nella stessa misura)? E se anzi quella fosse la regola dei normali contatti sentimentali umani? Se fosse addirittura obbligatorio che la persona per cui perdi la testa debba riamarti in misura inversamente proporzionale?

Per fare luce su questo aspetto delle relazioni umane dobbiamo ovviamente prima cercare di capire cos’è l’amore e come e quando esso si manifesti. Quand’è che qualcuno ci fa innamorare e perché?
Inutile dire che tentare di definire l’amore nell’angusto spazio offerto da un post – quando non ci sono riuscite le migliori menti di questo pianeta spargendo fiumi di inchiostro – è un’impresa più che ardua. Siamo quindi costretti a essere sintetici e ad accettare alcuni presupposti logici senza dimostrazione. Il punto da cui mi pare si debba partire è che l’amore è una strategia volta a favorire la riproduzione della specie umana e che riveste una tale importanza nell’esistenza di ciascuno di noi proprio perché la spinta riproduttiva è la principale esigenza di qualsiasi essere vivente. Se accettiamo questo presupposto interpretativo, dovremo senz’altro arguire che se riteniamo di svolgere al meglio la funzione di procreazione assegnataci dall’evoluzione, siamo senz’altro più innamorati.
Semplifichiamo molto. Come deve essere il nostro ideale partner sessuale affinché noi percepiamo di svolgere al meglio la nostra funzione riproduttiva, innamorandoci senza freni? Il suddetto individuo deve avere due caratteristiche specifiche, a mio avviso. Deve essere (quanto più) bello, intelligente, affettuoso, giovane e ricco… cioè deve possedere le proprietà utili a tramandare geni favorevoli alla discendenza e ad allevarla con adeguati mezzi materiali, morali e intellettuali. Inoltre deve essere percepito da noi come un partner “possibile”, una persona con cui (considerati i nostri requisiti estetici, psicologici e sociali, che ciascuno di noi sa valutare con invidiabile precisione) possiamo ragionevolmente aspirare a vivere. Una persona che rientri nella nostra circoscritta zona di caccia sentimentale. A tal proposito è probabile che i soliti Brad Pitt e Angelina Jolie - due attori a ragione o a torto molto ammirati da entrambi i sessi - siano un pizzico al di fuori delle nostre logiche aspettative sentimental-riproduttive e quindi difficilmente potremmo innamorarci di loro.

Fin qui filerebbe tutto liscio. Ci basterebbe trovare uno di questi partner desiderabili e “possibili”, superare la robusta concorrenza di altri individui che vogliono accaparrarsi la stessa preda e quindi vivere felici e innamorati con il nostro Lui (la nostra Lei). Per fare un esempio rozzo ma efficace l’amore è come comprare con ciò che abbiamo in tasca (molto o poco che sia) una macchina di valore superiore al nostro status sociale. L’amore è la percezione di aver fatto un “affare” conveniente in campo riproduttivo. Un grande amore è probabilmente la sensazione di aver concluso un affarone. Un grande amore è una Ferrari o una Porsche che per qualche incredibile evento della vita siamo riusciti a fare nostre anche se fatichiamo ad arrivare a fine mese.
Tuttavia c’è un problema in amore. Bisogna essere in due per praticare questa attività bramata dagli uomini. E se noi abbiamo una sfera di interesse in cui cercare un partner sentimentale, anche lui ha una sua sfera di interesse. E anche lui amerà di più o di meno il suo partner a seconda che questi si ponga in alto o in basso sulla scala della desiderabilità in campo riproduttivo (e questa scala di desiderabilità è stranamente corrispondente a quelle delle molte gerarchie – estetiche, sociali, intellettuali, economiche – esistenti nella comunità umana). Tornando al nostro esempio automobilistico, noi abbiamo la percezione di aver fatto un affarone accaparrandoci con i nostri pochi soldi, cioè con le nostre delimitate qualità estetico-intellettual-sociali, la Ferrari o la Porsche o comunque una macchina al di sopra delle nostre possibilità… Ma chiediamoci: se la Ferrari e la Porsche avessero una personalità umana, avrebbero la stessa percezione? Anche loro penserebbero di aver fatto un affare vivendo e interagendo con noi? Non è molto probabile. E’ facile invece quelle macchine di lusso si sentirebbero un tantino declassate ad avere incrociato la loro esistenza con dei disgraziati come noi. La Ferrari e la Porsche, se fossero umane e potessero provare emozioni, probabilmente ci amerebbero meno di come le amiamo noi e ci lascerebbero in fretta a favore di acquirenti umani alla loro altezza sociale, anzi, se possibile, perfino un pochino più su.
Ogni volta che noi amiamo molto o, peggio ancora, moltissimo una persona, quindi, quell’individuo, per i motivi spesso esposti provocatoriamente in questo post, deve amarci poco o pochissimo.

L’esempio delle macchine di lusso è fatto a scopo ironico, ma non troppo. Inoltre è davvero raro che le Ferrari incrocino la loro esistenza con quella dei poveracci descritti nel post. In genere quando in amore si verificano queste difformità per così dire di status riproduttivo (status che come ho cercato di dire riguarda molti fattori e non sono quelli estetici, sociali o intellettuali), si tratta di differenze contenute anche se perfettamente evidenti alle due parti della coppia amorosa.
La logica deduzione del discorso che abbiamo impostato è che, ipotizzando la presenza delle citate (e ben delimitate) zone di caccia o di interesse sentimentali, alcuni individui saranno sempre e comunque esclusi dalle strategie amorose di altri. Non avranno alcuna possibilità, per l’insufficiente valore riproduttivo che rappresentano agli occhi di alcuni loro simili, di essere presi in considerazione come partner sentimentali. Per tutta al vita vivranno in un mondo “a parte” che sarà escluso da altri mondi. L’apartheid come si vede è una costante della società umana e pensare che tale efficace vocabolo debba essere utilizzato solo in campo razziale è una grossa ingenuità.

venerdì 13 ottobre 2006

Dio salvi la regina e il blog


Il blog ci fa bene o no? Conviene impiegare parte del nostro tempo, molto o poco che sia, nell’utilizzare questa forma di comunicazione virtuale? Io credo di sì. Credo proprio che il blog faccia bene a un gran numero di noi.
Ieri sera ho ricevuto la telefonata di una persona che non sentivo quasi da due anni. Mi sono reso conto mentre le parlavo che io ero cambiato. Mi sentivo più sereno, meno nervoso. Quei cambiamenti positivi – posto che esistano davvero nel modo in cui li ho percepiti – a mio avviso erano dovuti al fatto di aver comunicato sul blog negli ultimi mesi. Stare qui mi ha cambiato e credo che mi abbia cambiato in bene.

Qualche volta ho parlato male del blog e dell’insoddisfazione che può darci il cattivo uso di questo delicato strumento virtuale. Oggi ne voglio dire un gran bene. Ho già detto altrove dei vantaggi che il blog può apportare al tuo modo di scrivere. Di come ti induca alla sintesi e all’efficacia espressiva. Di come ti spinga a migliorarti nella parola e nella comunicazione. Il blog da questo punto di vista è un continuo tennis. Tu scrivi e ti rendi conto dai commenti che ricevi se ciò che dici è efficace o no (e in caso negativo cerchi di introdurre le opportune modifiche alla tua prosa per renderla più incisiva); leggi i post degli altri e capisci come e perché alcuni funzionano e altri no.

Ma il vantaggio grandissimo che ti dà il blog è quello di farti comunicare con altre persone (che in qualche caso smettono di essere figure virtuali per assumere fattezze concrete). Il blog è puro ossigeno per individui che si sentono soli o che hanno avuto scarse occasioni di relazioni sociali nella vita. Io prima di venire in questi lidi virtuali mi sentivo di certo più solo di come mi sento adesso. Soprattutto comunicavo con molta maggiore difficoltà con il prossimo. Certo non è che i cambiamenti che ho riscontrato in me siano epocali, e che se prima facevo l’orso ora mi metto a raccontare barzellette sconce al primo che incontro in strada. Però qualcosa è accaduto in me e io lo percepisco come un cambiamento positivo. Sono uscito dal guscio.

Ciò che mi preme sottolineare è che il blog ha influssi positivi anche nella vita reale, quella che vivi incontrando persone in carne e ossa e facendo esperienze concrete. La comunicazione virtuale ti rende più spigliato anche nelle vicende di tutti i giorni, meno titubante nell’aprirti con gli altri.
Sono certo che un’evoluzione simile alla mia, chi più chi meno, l’abbiano sperimentata anche gli amici virtuali che in questi mesi ho avuto l’onore di frequentare sul blog. Stare qui ci fa bene, credetelo. Dobbiamo solo imparare a farlo con la giusta dose di moderazione, il che non è detto che sia facile.
Lunga vita al blog e ai blogger (sperando che non debba pentirmi presto di queste parole. :-)).

mercoledì 11 ottobre 2006

L'ala o la coscia - La parte preferita della donna


Cari amici vicini e lontani, mi sono posto una domanda di recente, soprattutto dopo aver letto una delle solite interviste che girano sul blog. Dunque, quale parte del corpo femminile preferisco? Che lo si creda o no non ricordo che nessuno mai mi abbia rivolto sul serio questa domanda (una delle predilette nelle interviste da blog o da talk show).
Ho dedicato un po’ di tempo a riflettere sul quesito. A un certo punto, sorprendendomi io per primo mi sono reso conto che sul corpo femminile esiste un’invisibile linea di demarcazione, che potremmo situare grossomodo alcuni centimetri sotto le clavicole. A meridione di questo solco immaginario domina il regno del desiderio sessuale, della fame prosaica di carne femminile, della concupiscenza erotica. Le lande settentrionali sono invece l’ostello di sentimenti gentili e poetici.

Analizziamo infatti, cortesi amici del blog, la conformazione geografica femminile a mezzogiorno della linea Maginot subclavicolare. La prima struttura anatomica di un certo spessore che incontriamo nella nostra esplorazione scientifica è il seno, composto da due ben noti rilievi carnosi che, catturati nella mano bramosa, sollecitano vividi aneliti sessuali, nonché potenti impulsi masticatori in alcuni soggetti predisposti (tra cui il vostro esecrando narratore). Procedendo nella nostra escursione troviamo il morbido ventre femminile, provvisto del ghiotto ombelico suscitatore di ben studiate fantasie allorché venga esposto in pubblico tramite i pantaloni a vita bassa in voga tra vere e finte adolescenti. Tralasciamo la pur importante disamina di spalle e schiena e concentriamoci sul baricentro muliebre, custode di conformazioni orografiche suscitatrici di tempeste ormonali presso gli osservatori maschili.
Sul davanti abbiamo l’area inguinale composta dal Monte di Venere e dalle zone genitali e dietro abbiamo il sedere, altresì detto deretano o culo. Il trittico composto da queste due impareggiabili zone corporee unite alle sottostanti cosce sinuose e fragranti è di certo la regione più eccitante dal punto di vista sessuale, tale da portare alcuni negletti individui sull’orlo della pazzia (devo forse aggiungere che il qui presente narratore è tra questi?). Ma i tesori del corpo femminile non sono ancora esauriti. Procedendo verso la zona polare antartica, ci imbattiamo in paesaggi sempre notevoli che terminano in piedini da sogno muniti di dita spesso smaltate di color rosso bacio.

Proviamo adesso invece ad ascendere sopra la suddetta linea Maginot clavicolare. Ci renderemo subito conto, attenti e perspicaci compagni virtuali, che i paesaggi corporei propri di questo nostro secondo viaggio didattico stimolano in noi emozioni idilliache, romantiche. Ci imbattiamo quasi subito nel collo sottile e poi nella squisitezza del viso, che genera ripetuti sentimenti lieti con la morbidezza della bocca, delle gote, del naso delicato, degli occhi che fanno innamorare. Da non scordare i lunghi capelli femminili che strappano sorrisi propri del baccalà umanoide quando li accarezzi o li sfiori con le labbra riarse dal desiderio.
La nostra disamina settentrionale e dei sentimenti gentili a queste lande associati non è ancora terminata, perché dobbiamo ancora esaminare le braccia muliebri. Anch’esse sollecitano aneliti poetici con la snellezza delle membra che digradano con geometrie musicali nel polso. Un discorso a parte meritano le mani delle donne, probabilmente il più leggiadro strumento presente sul corpo di questi esseri straordinari. Le mani femminili hanno la particolarità di suggerire l’idea di grazia più completa percepibile in questa dimensione imperfetta. Sono belle. Belle come poche cose si possano immaginare. Arrivo perfino a dichiarare che nessuna struttura di questo mondo mortale racchiude in sé maggiore grazia delle mani femminili quando sono belle, e lo sono spesso.
Rimane comunque l’interrogativo sulla parte femminile che preferisco. Dalla riflessione fatta è facile arguire che devo dare almeno due distinte risposte. Una per l’emisfero australe e uno per quello boreale. Per il sud scelgo il deretano (non fatemi pronunciare il termine esatto o mi viene un colpo), senza scordare il richiamo irresistibile generato dalle cosce aperte di fanciulle sedute in modo all’apparenza sciatto. Per il poetico nord femminile scelgo le mani. Le mani che fanno innamorare.
Le mani che fanno innamorare.

Piccola appendice. Stamattina sono andato in farmacia. C’era una ragazza in camice bianco dietro il bancone. Non era bella, ma che mani aveva! Sottili, magnifiche. Ho capito finalmente da dove è originata l’espressione siciliana “Bacio le mani”! :-)

lunedì 9 ottobre 2006

Io domani (seconda parte)


E se riprendessi il romanzo rimasto nel cassetto? Con la letteratura non si guadagna un centesimo? E’ vero, ma cosa potrebbe importargliene all’uomo nuovo che sarò tra ventiquattr’ore? Scrivere un romanzo mi migliorerà. Coinvolgerò pure Anna nel mio progetto. Lei scriveva benissimo un tempo. Era una piccola star del giornalismo di provincia. Ha lasciato perdere la penna perché le ho messo un mucchio di bastoni tra le ruote. E poi ormai anche Roberto si prepara a spiccare il volo dal nido. Tra poco saremo liberi, io e Anna. Magari potremo fare qualcosa di pazzo e meraviglioso. Potremo vendere tutto, case, ville al mare, macchine, quei terreni inedificabili comprati e coperti di cemento dopo aver corrotto tutti gli amministratori del caso, quegli scantinati malsani del centro storico in cui ci ho ficcato, a peso d’oro, decine di poveracci extracomunitari, quelle barche da Portofino acquistate con i soldi succhiati ai disgraziati universitari assunti in nero nella mia società… diremo addio a tutto e partiremo una qualche splendida isola dei tropici, uno scoglio sull’oceano lontano dagli itinerari del turismo consumistico, dove vivere di sole e amore.

L’incidente stradale era la cosa migliore che mi poteva capitare, ormai ne sono certo. Tra l’altro certi avvenimenti ti inducono a riflettere su cose a cui non vuoi mai pensare. Cose come la morte, per esempio. O come ciò che accadrà dopo di essa. Già, cosa accadrà? Non me lo sono mai chiesto sul serio. Quando me l’hanno domandato, ho sempre giurato di non credere in Dio. Ora però ho qualche dubbio. E se poi alla fin fine esistesse qualcosa o qualcuno, un’entità che potremmo pure chiamare Dio? E se esistessero anche le altre cose della religione cristiana? Magari non tutte, ma quelle principali. Se ci fossero il paradiso e l’inferno? Come sarebbero quei posti? Certo molto diversi da come li ha immaginati chiunque. Sarebbero luoghi sofisticati, degni dell’Intelligenza Suprema che chiamiamo Dio. Chiunque li abbia immaginati come cieli dozzinali in cui oziare in panciolle o abissi in cui arrostire in eterno, ha fatto un grave torto a Dio, se davvero esiste, e alla Sua intelligenza.
Penso che soprattutto sull’inferno ci si sbagli. Bruciare all’infinito mi pare una cosa volgare che non fa poi tutta questa paura. Dopo un po’ ti abitueresti all’odore della tua carne bruciata e passati diciamo un miliarduccio di anni qualche scottatura in formato maxi non ti farebbe molto effetto. L’inferno deve essere un luogo molto più sofisticato e pauroso. Come un enorme punto nero. Un punto nero e buio in cui sei immerso da solo. Senza la capacità di percepire alcunché se non il riverbero dei tuoi pensieri. Tu e i tuoi pensieri nel buio. Cioè solo i tuoi pensieri, perché tu non esisti, non hai forma o concretezza, non ci sei.
Non riesco a immaginare niente di più spaventoso di questo. Un luogo buio e basta. E in quel luogo non luogo ci devi passare non secolo o un millennio. Non un milione o un miliardo di anni. Ma l’eternità. L’eternità passata in un luogo buio e basta. Senza nemmeno il privilegio di impazzire. L’eternità a galleggiare in un buio totale, con la tua mente che ricorda tutto e funziona alla perfezione… e che non ha meccanismi di difesa. Da solo, nel buio, senza poter impazzire. Se l’inferno esiste, deve essere così.

Per fortuna non sono ancora morto. Per fortuna da domani butterò all'aria la vecchia vita. Per fortuna domani mi trasformerò nell’uomo più buono e altruista della terra. Così quando verrà il mio turno di essere giudicato, e ormai penso che quel momento verrà senza dubbio, nessuno penserà a mettermi in un terribile inferno di buio e basta.
C’è una domanda terribile che cerco in tutti i modi di evitare. E se per me non ci fosse nessun domani? Se io non fossi in una stanza di ospedale in attesa che qualcuno accenda la luce? Se io in quell’incidente stradale fossi morto e questo fosse l’inferno? Se dovesse continuare così per sempre? Con la mente lucida che macina pensieri su pensieri in questo terribile buio e basta, senza nessuno, senza una voce, una presenza, un’anima, senza niente? Ho paura.

Il presente post è un mio racconto su carta molto accorciato. Pensavo di avere poco da imparare nel campo della revisione a livello di frase, dato che anche prima di venire sul blog dedicavo parecchia attenzione a questa pratica… ma scrivere i post mi ha insegnato che quasi non esiste limite alla capacità di sintetizzare la tua prosa mantenendo inalterata la qualità del tuo messaggio. A presto con altre riflessioni su questo punto.

sabato 7 ottobre 2006

E' bella Margot in abito da sposa


E’ bella Margot in abito da sposa.
Non è stata mai così bella in vita sua, lei che certo non ha il fisico di una modella.
Ha il viso candido, serio, il sorriso tirato a causa della trappola infernale che le affligge il busto per snellirle la figura. E’ bella come ogni sposa che sale sull’altare. Però in lei oggi c’è qualcosa di più. Per una volta ha lasciato perdere l’autocontrollo e si è abbandonata ai suoi impulsi profondi.
E’ nervosa, Margot, oggi. Ha mille dubbi che le agitano la mente. Come sarà il domani? Come sarà la sua vita tra un anno e tra due? Ha fatto la cosa giusta a venire su quest’altare per pronunciare un sì? Sì, sì, sissississì. Quante volte ha pensato a quella parola! E’ sicura che al momento giusto quella semplice sillaba le si incastrerà in gola per l’emozione, facendo ridere tutti gli invitati al matrimonio.
Sui dubbi comunque non c’è niente di male, riflette. Solo un’oca in questo giorno straordinario non si farebbe sfiorare dal minimo timore. Sì, Margot, fai la cosa giusta. Fai la cosa giusta perché hai pensato molto a questo giorno e lo hai fatto con l’intelligenza e la passione che ti sono proprie. Fai la cosa giusta perché la fai con amore.

Ma lasciamo perdere i pensieri della sposa, contentiamoci di guardarla.
Guardiamola sui tacchi alti, perché li indossa così di rado.
Guardiamola con quella sottana classica perché non la vedremo spesso così.
Guardiamo il viso truccato con cura che lei stessa non riconosce quando si specchia.
Guardiamola mentre se la ride sotto il velo di sposa. Riderà ancora, si sa, e anche forte, ma non lo farà mai più nel modo speciale di questo giorno speciale.
Guardiamola ora, vi prego, guardiamo Margot sull’altare e pensiamo a quanto sia fortunato l’uomo che le sta di fianco.
Oggi Margot si sposa.
Oggi noi siamo felici perché lei è felice.
Ora dobbiamo andare. Però non possiamo lasciarla senza girarci a guardarla un’ultima volta.
Ma che diavolo, avete visto come è bella Margot in abito da sposa?

Oggi, se i miei calcoli sono esatti, è un giorno speciale per la nostra amica blogger Margot. Questo post è l’unico regalo che posso farle. Spero che lo gradisca.

giovedì 5 ottobre 2006

Donne, vi offro un mio servizio a pagamento


Donne, vi offro un mio servizio a pagamento. Non vi spaventate, o meglio non vi eccitate. Non vi voglio spupazzare o strapazzare in posizioni orizzontali. Scordatevi la foto del post. L’ho messa lì per pure esigenze pubblicitarie (tuttavia se qualche donzella volesse avanzare proposte inerenti alla foto io la analizzerò con la massima apertura mentale, pronto a sacrificarmi per aiutare il prossimo bisognoso).
Prima vi spiego le modalità economiche della prestazione d’opera che vi offro. Poi la illustrerò nel dettaglio. Dunque il mio servizio è molto economico perché aborrisco la rapacità del moderno capitalismo. Vi costerò solo duecento euro una tantum. Potrete anticipare i primi cento sul conto corrente che poi indicherò, il resto a lavoro completato. Se dimostrate di essere in difficoltà economiche, vi farò uno sconto. E ora ecco la mia rivoluzionaria proposta.

Guardiamoci negli occhi, o Figlie di Eva, voi siete qui sul blog per trovare l’anima gemella. Forse non pensate a questa eventualità dalla mattina alla sera e a volte vi convincete che l’importante per voi è comunicare e sfogarvi scrivendo. Qualcuna di voi dall’immaginazione ardita magari ritiene pure che il blog le serva per una sorta di autoanalisi casereccia o di esplorazione dell’io profondo. Però in fondo sapete benissimo cosa ci fate qui. Cercate l’omo, il masculo, il consumatore di Denim, in azzurri abiti principeschi se possibile, ma anche in tenuta da tamarro se il fato ingrato si ostinasse ad avversarvi. Per i maschi ronzanti nell’etere vale un discorso analogo a mio avviso, ma qui esuliamo dal mio presente annuncio.
Il vostro problema, o fanciulle virtuali di ogni età, è che voi il moroso, lo spasimante più o meno virtuale e più o meno appassionato, già ce lo avete. Ce lo avete tutte, dalla prima all’ultima (esclusi i soliti rarissimi casi di eccezione grammaticale). Vi va pure bene, questo vostro ruspante viveur virtuale, ci avete parlato, lo avete già incontrato, vi siete date perfino alla pazza gioia con lui. Se già avete lo spasimante e se vi sta bene così com’è, io a cosa vi servo, vi chiederete? Perché mai dovreste ammollarmi duecento cocuzze se avete un moroso già rodato, sperimentato e perfino collaudato con successo a letto? Ci arrivo subito.

Parliamo prima di uno dei vostri principali punti dolenti, o creature di Dio. Avete il boy friend, ma siete troppo cedevoli con lui. Non sapere duettare come si conviene nel gioco dell’amore. Siete quasi sempre voi a chiamarlo, voi che lo cercate. Lui fa il difficile. Si fa pregare. Sembra farvi un favore ogni volta che vi parla. Questo vi addolora e alla lunga inficia il vostro rapporto. Il vostro spasimante virtuale perde il rispetto e un giorno vi lascia. Dovreste resistere alla tentazione di chiamare in continuazione il vostro moroso. Dovreste farvi desiderare, padroneggiare il gioco. Però non ci riuscite. Resistete un po’, ma alla fine il telefonino la vince. Chiamate per prime e vi condannate alla deportazione nella parte debole della coppia, la parte che soffre. Qui entro in ballo io. Per duecento miseri eurozzi vi metterò nella condizione di farvi chiamate dal vostro spasimante. Lo indurrò a cercarvi, a fare il primo passo.
Come è possibile? Io vi scriverò una media di tre lettere al giorno. Saranno mail bellissime, brillanti e piene di passione. Quando riceverete le mie mail pregne di sentimento vi scorderete del vostro spasimante. Non penserete nemmeno per scherzo di digitare il suo numero. Sarete sedotte senza scampo dalla mia prosa e dal mio ardore. Resterete in questo piacevole stato d’animo per un minimo di due settimane e un massimo di quattro. Dopo questo lasso di tempo perderete in fretta interesse per il sottoscritto (per motivi che in questa sede non ci interessano), ma sarà proprio in quel periodo che il vostro antico boy friend, quello già rodato e sperimentato con successo, vi chiamerà a telefono. Sarà lui che farà il primo passo. E avrà un tono ben diverso da quando lo chiamavate voi ogni ora. Sarà ai vostri piedi, vi colmerà di attenzioni. Si trasformerà nell’innamorato dei Baci Perugina. Vi chiederà come mai non vi siete fatte vive, non è indispensabile menzionare il mio impareggiabile sex-appeal letterario.
Pensateci, o donne, duecento piccole cocuzze per garantivi un amante fidato che torna all’antico ardore. E’ un’offerta strepitosa. Affrettatevi ad accettarla perché è in fase di lancio.

Una delle prime volte che ho sperimentato questa mia fenomenale capacità di ridestare gli estri di amanti distratti, è stata con la signora scopatrice del sabato sera descritta qui. La signora in oggetto era felicemente sposata, con prole numerosa, e aveva un amante a cui dedicava le sue attenzioni nei week-end. Era soggiogata dalla mia prosa e dalla mia superiore passionalità partenopea, ma aveva specificato che con me non ci poteva fare niente a causa di insormontabili distanze geografiche. Tuttavia continuava a conversare con me virtualmente e io mi chiedevo perché (pensavo che il mio fascino inusitato annichilisse qualsiasi barriera geografica o razionale). A un certo punto la mia interlocutrice mi confidò che il suo scopatore del sabato sera faceva il difficile per darle una ripassata nel giorno leopardiano, si faceva pregare. Tuttavia da qualche tempo lei riusciva a resistere alla tentazione di chiamarlo e di umiliarsi per prima (curiosamente questo periodo era iniziato da quando aveva cominciato a conversare con me)… In verità era accaduto un evento ben strano: di recente era lo scopatore dei week-end che la chiamava con insistenza, ma la nostra eroina, profittando della sua recente forza d’animo (qualità caratteriale sempre contemporanea alla nostra conoscenza virtuale) resisteva alla grande. Lo avrebbe fatto spasimare un altro po’ e poi avrebbe risposto alle pressanti richieste del Ripassator Scortese quand’egli fosse stato cotto al punto giusto.
Resomi conto di questo stato di cose, mi congedai dalla mia interlocutrice virtuale indirizzandole formule non contemplate nel galateo linguistico. Avendo poi rilevato che questo scenario si ripeteva, con varianti di minor conto, con altre partner, mi sono chiesto: perché non mettere a frutto questa mia dote straordinaria? Procurandomi tre o quattro clienti al mese (sono di parche abitudini esistenziali) la mia sopravvivenza sarebbe assicurata senza tribolazioni.

martedì 3 ottobre 2006

Salvate il napoletano che muore


Qualche riflessione che ho fatto sulla parola “vaso” (bacio nel napoletano tradizionale, termine ormai in netto regresso se non in contesti scherzosi), mi dà l’opportunità per un più articolato rilievo sull’uso moderno del dialetto partenopeo.
Il napoletano sta cambiando, com’è naturale che sia per ogni lingua viva che assume nuovi vocaboli e ne rigetta altri non più adeguati alla sensibilità degli utenti di quella parlata. I nuovi vocaboli hanno la particolarità di rendere a poco a poco omogeneo il napoletano alla lingua italiana. Questo fenomeno non è altro che un’appendice della globalizzazione che prende piede in tutto il mondo; cioè tendono a sparire tradizioni e usi localistici col risultato di appianare tutta la cultura a un modello standard valido in gran parte del globo.
Ho già detto che l’antico “vaso” è nettamente in disuso e usato nel napoletano moderno più che altro in situazioni ironiche. La stessa sorte sta seguendo una serie di termini antichi propri della tradizione partenopea, che lasciano il campo a vocaboli più intonati all’italiano (e a mio avviso meno espressivi e belli). Stanotte riflettevo su alcuni di questi termini che cadono in disuso.

Per esempio c’è il verbo ‘nfonnere (bagnare) che cede il passo al più moderno bagnà (io già molti anni fa mi rifiutavo di dire che uscendo sotto la pioggia mi ero ‘nfuso). ‘O chianchiero e ‘a chianca arretrano di fronte a macellaio e macelleria, arretra pure il “don” di eredità spagnoleggiante con cui ci si rivolge ai signori chiamandoli per nome. Ecco ancora un’altra serie di termini che sono in fase calante, sia pure in certi casi ancora vivi nell’accezione scherzosa: segue tra parentesi la traduzione italiana che è lo stesso termine adoperato nel napoletano moderno senza pronunciare la vocale finale.
Alleggerito (digerito), nenna (bambina, il termine è ancora usato in contesti vezzeggiativi), ciato (fiato), crisommola (albicocca), purtuallo (arancia), perzeca (pesca), addumannato (domandato), allero (allegro), casciulella (cassetta), denocchie (ginocchia), caiola (gabbia), ‘ntrasatte (all’improvviso), palomma (farfalla), propeto (proprio), ciorta (fortuna), puteca (negozio), suoccio (uguale).
Anche i nomi delle persone subiscono lo stesso fenomeno di spersonalizzazione delle tradizioni. Oltre al fatto che i nomi assegnati ai nuovi napoletani sono i Marco, i Manuel e le Alessia e le Valeria che furoreggiano nel resto d’Italia... se per caso hai un Antonio lo chiami Tony e non ‘Ntuono, se hai un Gennaro sopravvissuto lo definisci Genny, non Ennà, Assunta è Susy e Anna non è certo Nannina. Austino, Vecienzo, Gerozzo, Tatore, Marittiello, Cuncettì, Puppenella, ‘Mmaculata, Franchetiello… dove sono finiti tutti questi nomi?

Ormai a Napoli si apre una scatola e non una buatta, si prende una pentola e non una caccavella, sferri un pugno e non una cagliosa. E se hai delle monete le metti nel salvadanaio, mica nel carusiello. Se ti voglio far ridere, ti faccio il solletico, non ti ciculeo. I bambini napoletani moderni non raccolgono ritrattielli, ma figurine, non giocano con le pazzielle, ma con i giocattoli, possono essere invidiosi e non mmiriusi e infine, se devono dar fuoco alla casa, usano i fiammiferi e non i micciarielli.
Quelli che riporto, si sa, sono solo alcuni esempi di un più vasto fenomeno di avvilimento linguistico del dialetto napoletano (come di altri dialetti).
Riflessione finale. Nello scrivere l’ultimo post in dialetto, quello intitolato “Damme nu vaso primma ca moro”, spesso sono stato a disagio. I termini che mi salivano alla bocca erano spesso simili a quelli italiani (fenomeno di livellamento che peggiorava a causa della cattiva resa scritta dell’idioma napoletano di cui ho già parlato altrove). Io invece volevo che fosse visibile la forza espressiva peculiare e unica del mio dialetto, cioè della mia lingua.

lunedì 2 ottobre 2006

Italiano contro napoletano


Ne dico un paio sull’evoluzione linguistica del dialetto napoletano e di come esso sia costantemente insidiato dalla lingua italiana. Con l'avvertenza che l'idioma della mia città è considerato quasi sempre una lingua vera e propria.
Quando ero bambino o ragazzo a quanto ricordo la forma espressiva principe delle mie parti era il dialetto. L’italiano si parlava solo in contesti formali o ufficiali come la scuola o in determinati ambiti di lavoro. Già per chiedere informazioni stradali a un estraneo si ricorreva a una forma dialettale un po’ meno stretta, sostenuta da alcune parole o locuzioni in italiano. Se si interagiva con personale municipale per richiedere documenti personali la forma di comunicazione era data perlopiù da una parlata mista, dove comunque il napoletano, specie dopo le battute iniziali, prevaleva. Ricordo che un evento davvero raro, così raro da apparire ridicolo, era udire una persona conversare per strada nella lingua ufficiale nel nostro Paese.

Nel rione dove vivevo io all’epoca - era un po’ più malfamato di quello dove sono ora, ma sempre nello stesso quartiere – c’erano alcune famiglie di origine triestina (credo fossero profughi istriani che dopo la guerra furono distribuiti in varie parti d’Italia). Ricordo in particolare un ragazzino sui dieci anni. Non ho mai saputo il suo vero nome, tutti lo chiamavano “taliano” (italiano) per il fatto che si esprimeva in un italiano perfetto e inusitato dalle mie parti. Davvero era un’assurdità sentire quando questo “taliano” apriva la bocca e parlava. L’assurdità era rinforzata dal fatto che questo ragazzo triestino era stato arruolato, per motivi incomprensibili, nella mi più pericolosa banda giovanile del mio rione e forse dell’intero quartiere, cioè la Banda dei Chiattoni (nome fuorviante perché i delinquenti membri della banda non erano affatto grassi)… Il capo della banda, Gerozzo (Ciro), venne ammazzato a 18 anni in una spedizione punitiva (un giorno forse parlerò di questo autentico demonio e della tremarella che ti veniva, anche se eri grosso il doppio di lui, se solo ti passava a cinquanta metri).
Più tardi, ai tempi del liceo, la situazione era più o meno questa nel mio quartiere. Le ragazze tra loro parlavano quasi sempre in italiano (anche se dimostravano di saper usare perfettamente il dialetto, il quale doveva essere la loro forma di comunicazione principale in famiglia). I ragazzi conversavano tra loro sempre in napoletano, sforzandosi di ricorrere a una parlata più raffinata quando si rivolgevano al gentil sesso. In classe ovviamente si parlava nella lingua di Manzoni.

Di recente la situazione pare molto cambiata. Non è raro ascoltare nel mio quartiere, pur essendo il dialetto la parlata ancora maggioritaria, conversazioni in italiano. Non molto tempo fa sono rimasto sbalordito quando ho udito due bambini di sette o otto anni, palesemente appartenenti alla classe degli scugnizzi partenopei, parlare tra di loro in italiano. Mi sono detto qualcosa come “Sta cambiando tutto”.
I figli delle mie sorelle sono stati educati a parlare solo in italiano (e questo gli ha provocato problemi a scuola, perché per essere accettato dal gruppo devi saper utilizzare pure il napoletano). I miei nipoti hanno fatto il percorso inverso al mio: hanno imparato il dialetto a scuola e l’italiano in famiglia.

Al più presto la seconda puntata sulle modifiche linguistiche nella parlata napoletana. :-))