sabato 31 marzo 2007

L'amore in parole incrociate


L’amore merita un cruciverba? Io dico di sì.
Ecco le definizioni che ci interessano.

Orizzontali. 2. Bevve una coppa di veleno per salvare lo sposo Admeto da Ade. 9. Suscitò l’amore di Eracle e la gelosia assassina di Deianira. 11. Amò Abelardo. 14. Sposa di Atamante. 15. Amò Paolo leggendo della passione di Lancillotto e Ginevra. 19. Con Francesca nella Divina Commedia. 23. Si innamorò della donna più bella e pericolosa del mondo. 26. la amò Assuero. 31. Forse il più famoso innamorato. 35. Perse la ragione per Giasone. 37. Con Isotta forma una delle più affiatate coppie della Storia.

Verticali. 1. Con Brunhilde in Wagner. 6. Meglio non innamorarsi di lei. 10. Con Leandro. 12. Sopportò gravi menomazioni per Eloisa. 20. Affrontava ogni sera il mare a nuoto per Ero. 24. Con Tristano fino alla morte. 25. Il Gray che amava se stesso.

Come si vedrà, quasi tutti gli amori e gli amanti citati hanno accusato qualche problemino esistenziale sul lungo periodo. Ma nulla vieta di pensare che esistano amori più fortunati e duraturi di quelli che colpiscono l'immaginario collettivo.

Piccola postilla sugli amori preferiti da Emma, ossia la paladina dell’amore a prima vista linkata a sinistra. Andava in estasi per le storie di passioni medievali, quelle gotiche, con amanti che quasi impazzivano e si annullavano nell'amore, roba molto sopra le righe contrassegnata da gesti eccessivi e inconsulti e assenza totale di prudenza o riflessione. Ricordo che citò molte volte Tristano e Isotta o Lancillotto e Ginevra. Le piacevano anche amori classici o mitologici, o quelli del suo secolo di elezione, ossia l’Ottocento, ma il meglio del meglio per lei era una storia tra un cavaliere più o meno puro come Parsifal e una damigella triste aggirantesi in un castello brumoso o in una selva lussureggiante. L’amore per lei era tutto chiuso in sguardi incendiari, avvolto in situazioni tumultuose, pioggia invece di sole, vento del Nord al posto di una calda brezza marina, cime tempestose e giammai giardini di Marzo, un sentimento costantemente insidiato dall’ostilità del fato o dall’invidia degli uomini.

lunedì 26 marzo 2007

L'identità segreta dei blogger


Non so se vi è mai capitato di trovarvi su un blog e pensare che quello è un posto di facciata, una specie di specchietto per le allodole, un blog di riserva, usato di tanto in tanto dal suo gestore probabilmente per rilasciare giudizi o fare conoscenze sotto un’identità diversa da quella con cui è noto tra i blogger.
I blog di questo tipo hanno la caratteristica di essere poco curati nei testi e di contenere post svogliati, a volte pubblicati a distanza di mesi, spesso basati solo su foto non raffinatissime e su qualche commento alla “Oggi mi sento così”.

In effetti nei primi momenti in cui stavo sul blog mi capitava di tanto in tanto di imbattermi in posti virtuali di questo genere. E mi chiedevo perché uno continuasse a produrre articoli così poco convinti. Pensavo che la gente avesse poco tempo a disposizione, ma poi mi sono reso conto che chiunque in un paio di mesi trova una mezz’oretta per scrivere un post decente, in cui si manifesta la sua voglia di comunicare con il mondo, e che se non lo fa ci saranno dei precisi motivi. In particolare mi colpì il caso di una blogger che conobbi tempo fa e di cui non ho più notizie. Costei rilasciava, non solo a me, commenti lunghi e ben scritti, ma andando sul suo blog trovavi dei post avvilenti, tre righe buttate giù alla come viene. Una volta vidi perfino la fotografia di una tazza di caffè con la dicitura “Oggi ho voglia di un bel caffè fumante”. Mi chiedevo perché una persona che rilasciava commenti lunghi e acuti, che certo richiedevano tempo e concentrazione, producesse post così svogliati. Non riuscii a rispondermi. Ma chissà perché pensai che il blog con il post del caffè fosse una specie di identità segreta, utilizzata da qualcuno che volesse comunicare senza i legami impostigli dalla sua personalità virtuale ufficiale.
Magari, riflettei, i personaggi di questo genere erano individui che, conosciuti come blogger seri e severi, avevano voglia di essere goliardi e addirittura demenziali (o viceversa). Magari si trattava di gente che voleva comunicare con te senza farti sapere che l’avevi già incontrata in altre occasioni. Una volta ebbi perfino l’impressione che un blogger che conoscevo bene usasse questo trucchetto dell’identità segreta alla Clark Kent per ironizzare sul sottoscritto come non avrebbe potuto fare nella veste in cui lo conoscevo. Non so se pure altre persone hanno avuto la mia impressione sui questo tema. Insomma, esistono davvero i Peter Parker e i Clark Kent del blog?

E’ chiaro che non tutti i blog contenenti post distanziati nel tempo rientrano nella categoria citata in questo articolo.

La cosa stupefacente del blog è che anche se tutti noi che lo frequentiamo lo facciamo in forma anonima (pure se usi il tuo vero nome di Claudio e dici di essere di Milano, non sei comunque un personaggio facilmente rintracciabile), col tempo, con i post che scriviamo, con le persone che conosciamo e con il nostro modo di essere nel mondo virtuale, sviluppiamo una personalità e un’identità ben precise, a cui ci dobbiamo adeguare per uniformarci alle aspettative generate negli altri e di cui alcuni di noi certe volte si sentono prigionieri.

venerdì 23 marzo 2007

Ragazza triste come me Ah Ah


Ho visto una ragazza triste che aspettava fuori da una stazione ferroviaria. Non era bella, ma nemmeno particolarmente brutta. Era piccola, magra, ma non di quella magrezza che si acquisisce con le diete, sembrava magra perché i suoi antenati si erano alimentati male. I suoi capelli lunghi e lisci le coprivano parte del volto, indossava una giacchetta lunga che le stava un po’ troppo stretta.
Facevo una delle mie lunghe passeggiate, ma qualcosa nell’espressione della ragazza mi ha fatto rallentare il passo per poterla osservare meglio. Ho capito quasi subito che mi avevano colpito i suoi occhi tristi. Indossava i suoi vestitini come se fosse una signorina di campagna di una volta che si è messa l’abito buono per andare a messa. La ragazza con tutta evidenza aspettava qualcuno e quel qualcuno non poteva che essere il suo fidanzato. Non sembrava oltremodo felice per quell’incontro. Ho immaginato che il suo ragazzo fosse un tipo di aspetto simile al suo, un figlio del popolo amante delle canzoni napoletane neoromantiche e dei vecchi film con Nino D’Angelo. Magari faceva l’apprendista in un’officina e gli restava sempre addosso qualche macchia di unto di macchina sfuggito alla doccia serale. Probabilmente la ragazza triste lo riteneva un gradino al di sotto delle sue logiche aspettative in campo amoroso. Forse avrebbe preferito un compagno più desiderabile, ma aveva dovuto accontentarsi per non restare sola. Mi sono pure voltato in giro per vedere se arrivava questo famigerato moroso, ma niente da fare.

E’ passato da lì un gruppo di ragazze vocianti della stessa età di quella che aspettava, sui diciassette, diciotto anni. Non avrebbero potuto essere più diverse. Queste ridevano con l’aria seducente che hanno le giovani donne quando lo fanno, mentre quell’altra era malinconica. Queste erano esuberanti nel look, jeans bassi e maglie aderenti, catene e catenine, mostravano senza problemi qualche chilo in più, sapevano di essere attraenti e questo le rendeva sicure di sé. La differenza tra il gruppo vociante e la donzella in attesa risultava soprattutto una. Le nuove arrivate sembravano ragazze di scuola, che prendevano e davano amore come e quando volevano, mentre quell’altra no, non prendeva e non avrebbe preso molto dalla vita, almeno questa era l’impressione, anche se a scuola doveva andarci pure lei.

Ero a quasi un'ora di cammino da casa quando ho visto la ragazza triste fuori dalla stazione. Però per tutto il resto della passeggiata ho pensato a lei. Volevo scrivere un post sul suo sguardo. Cercavo un titolo adeguato. In un primo tempo il titolo giusto mi pareva “Un'illusione chiamata amore” perché pensavo che la ragazza triste dava l’impressione di volersi considerare innamorata anche se forse non lo era. Poi ho pensato alla canzone di Patty Pravo.

Probabilmente siamo portati a sviluppare sentimenti di empatia e benevolenza verso le persone che sentiamo vicine a noi, che sentiamo percepire il mondo alla nostra maniera. Forse passando accanto alla ragazza del post ho pensato, come si dice nella canzone qui citata: “Ragazza triste, sono uguale a te”.

mercoledì 21 marzo 2007

Cantare a squarciagola dopo l'allenamento


L’allenamento sulla cyclette è appena finito. E’ stato duro, sono sempre fuori allenamento, ma l’ho portato a termine. Ho ascoltato a tutto volume canzoni ritmate utili per fare sport: gli Aqua, i Blondie (“Call me” o “Maria”) Gloria Gaynor (“I am what I am” e altre); ma anche roba come “Dragostea”, Sophie Ellis Bextor in “Murder on the dancefloor”, o pezzi svelti degli anni Settanta dalla Sheila & B. Devotion di “Love me baby” al “Good morning starshine” del musical Hair. Sono esausto, sudato e affannato. Ma poiché in questo preciso momento dopo l’allenamento ho voglia di cantare a squarciagola e poiché l’allenamento ha annientato, sia pure per poco tempo, le mie in genere robustissime inibizioni sociali, non c’è nessuna forza su questa terra che possa impedirmi di rilasciare la mia voce a più non posso.
L’attività fisica ottiene pure un secondo e forse perfino più incredibile effetto. Cioè libera la mia gola da ogni timore ed esitazione e le permette di affrontare con fermezza tetragona anche i passaggi canori più difficoltosi, quelli dove le stecche si sprecano. Ancora sudato, prendo il telecomando del lettore cd e cerco una canzone che mi permetta di esercitare al massimo la mia brama di cantare senza rete di protezione. Per un po’ di tempo le mie simpatie canterine sono andate a “We can’t hide it anymore” di Larry Santos e a qualche brano degli anni Ottanta. Di recente le mie preferenze del dopoallenamento si sono indirizzate su “Un attimo di pace” di Eros Ramazzotti.

Bene, me ne cammino per la stanza per riprendere fiato mentre Ramazzotti intona i primi versi della canzone. In questo frangente penso sempre che sono troppo affannato (sbuffo come una mongolfiera) e che non ce la farò mai a cantare quando verrà il momento. Ma appena si presenta il ritornello, ecco che le mie corde vocali assorbono energie insperate da luoghi sconosciuti. E vadoooo suuuuuuu. Yeahhh.
Vado alla grande su “Fammi respirare solo un attimo di pace /questo sorso d’aria pura dentro me”. La mia voce si libera senza sforzo, alta, intonata, senza incrinature, sembra la voce di un altro. Dov’è la differenza tra me e Bocelli? penso con non so quanta lucidità
“Voglio solo dedicarmi agli affetti a me più cari / specialmente se si tratta di te”. E’ pazzesco, non perdo un colpo, vado al massimo delle mie possibilità e la mia voce è ferma, senza paura, soprattutto sento che ne ho ancora dentro, posso reggere ancora per un po’ su questi livelli forsennati. La finestra è aperta e rido pensando alle grandi distanze da cui sarà ascoltabile il mio sfogo incontrollato.
“Fammi assaporare questo attimo di pace / per sentirlo fino in fondo dentro me”. E’ stupefacente la sensazione di potenza che provo cantando a tutta gola nella mia stanza degli allenamenti! La mia voce rimbomba tra le pareti nitida, potente, non cede, resiste sulle note più acute. Sono io quello che canta? Sì, sono proprio io anche se è difficile crederlo. Guarda che ugola coraggiosa, guarda che forza!
“Oggi che anche i sogni atterrano e chiudono le ali / perché il tempo di volare non è, non è”. Qui si verifica un puro e semplice miracolo. Sono giunto al limite delle mie possibilità canore, le mie corde vocali sono state messe sotto pressione e stanno per cedere di schianto, ancora una sola nota e steccherò… eppure all’improvviso non canto più, è arrivata una parte che non riesco a imparare a memoria e curiosamente è proprio la parte della canzone su cui la mia povera gola esausta avrebbe steccato senza scampo.
“Vista la città dalla collina / sembra un gigantesco flipper / con tutte quelle luci.” Bene, continuo a cantare, anche se il ritornello è finito. Tra poco si andrà ancora su con la voce e sarò pronto ad arrivare fino in fondo senza tentennare di una virgola.

Ho già parlato delle mie esperienze canterine in almeno due post. Qui parlo di quando intono canzoni per bambini con i miei nipoti e a quest’altro indirizzo descrivo i punti in cui non puoi fare a meno di cantare. Ah, l’ultima volta che ho cantato dopo aver fatto cyclette mi è sembrato di sentire risate provenienti da fuori. Ma di sicuro mi sbagliavo. :-)

domenica 18 marzo 2007

L'utopia negativa siamo noi


Immaginiamo di essere scrittori di fantascienza e di trovarci all’epoca di H. G. Wells. Tanto per dire un anno, diciamo il 1895, anno di pubblicazione del fondamentale romanzo di “anticipazione” La macchina del tempo. Dobbiamo immaginare come sarà il mondo tra un secolo, poniamo nel 2007. Dovremo sforzarci di immaginare le meraviglie tecniche e la senza dubbio sofisticata organizzazione sociale di quella lontana epoca. Tuttavia dato che il genere che tira è quello catastrofico – in questo scorcio di Ottocento come in qualsiasi altra epoca - dovremo figurarci il futuro mondo del 2007 in una veste cupa, preoccupante, che ci faccia apprezzare ciò che di positivo e gradevole abbiamo nel nostro buon vecchio Secolo del Romanticismo. Dovremo ideare un’umanità alienata, spersonalizzata, ed escogitare scenari futuri che spaventino i giovanotti tardo vittoriani nostri contemporanei, inducendoli a leggere la nostra utopia negativa.

Per cominciare, diciamo che questo inquietante mondo futuro è pieno di telecamere, ossia di attrezzi che registrano la tua immagine permettendo a chi può di sapere cosa fai in qualsiasi momento. Ci sono centinaia e centinaia di telecamere per strada, fuori dalle banche e dentro i negozi, vicino ai semafori, la tua immagine è ripresa dovunque e può capitare pure il caso che tu butti una carta a terra e un vocione da Dio Adirato ti ingiunga di raccogliere il rifiuto illecitamente depositato per evitare saette ultraterrene (un caso simile è accaduto di recente in Inghilterra, protagoniste due ragazze distratte e un poliziotto che le spiava dalle telecamere fatte installare per strada dall’amministrazione cittadina). Le tue attività possono essere sorvegliate pure dallo spazio, con l’ausilio di telecamere ad alta definizione situate su satelliti in orbita geostazionaria. Più ghiotte ancora sono le informazioni carpibili dal tuo computer, strumento tecnologico dalla dubbia utilità (che banca hai e di quanta pecunia ti si può alleggerire, che siti frequenti e chi ti scrive cosa). Omettendo le numerose microcamere occultate nei bagni pubblici per spiare le ragazze discinte, filmare la tua immagine, possibilmente a tua insaputa e contro la tua volontà, è un giochetto. Solo nel tuo piccolo Belpaese ci sono milioni di telefonini con videocamera, maneggiati perlopiù da giovanotti ottusi intenti a riprendere qualsiasi situazione umiliante o sconveniente per poi pubblicarla su internet, cioè in un luogo di realtà virtuale in cui miriadi di sconosciuti possono ridere di te e dire: “Guarda sto coglione galattico!”.
Naturalmente i giovanotti cialtroni non si accontentano. Hanno scoperto che a scuola si fanno riprese molto più interessanti (avanza loro molto tempo, dato che in questo mondo futuro del 2007 non si studia una minchia e nei templi della cultura non impari manco a declinare il passato prossimo del verbo sputtanare). Quindi ecco i nostri ardimentosi fanciulloni filmare con i loro telefonini, in pieno orario scolastico, cose come: a) il pestaggio di un povero cristo di disabile tra le risate dei compagni; b) lo stupro di gruppo a danno della ragazzina più timida e indifesa della scuola tra la solita ilarità generale; c) prestazioni di sesso orale impartite da professoresse supplenti di matematica e all’occorrenza pure di ruolo, con la vocazione di fornirti gli strumenti metodologici per padroneggiare il tumultuoso progresso scientifico; d) spaccio di droga presso la professoressa di religione (gli insegnanti delle altre materie si presume che sappiano rifornirsi da sé delle appropriate sostanze ricreative). Questa mole di encomiabili cortometraggi sarà poi pubblicata su un motore di ricerca virtuale denominato Google, onde elevare le masse con il suo contenuto culturale.

La televisione, invenzione che terremota le case del futuro, consente di soddisfare, meglio dei filmati dei giovanotti improvvisatisi cineasti, le diffuse esigenze da guardoni. Tralasciando film e telefilm, ormai diventati robetta da lattanti, i telespettatori a venire potrebbero mettersi a spiare dalla mattina alla sera un branco di rimbambiti - scelti tra i più deficitari esponenti del decadente mondo del 2007 - chiusi in una casa. Potrebbero spiarli mentre si mettono le dita nel naso, ruttano, ragliano insulsaggini, seviziano la lingua italiana o mitragliano (neologismo del futuro) cazzate.
Spiare i cretini chiusi in una casa potrebbe essere uno stimolo insufficiente per i voyeur del ventunesimo secolo? E allora diamogli altri soggetti da sbirciare dal buco televisivo della serratura. Ecco quindi un gruppo di gente famosa, obbligatoriamente ottusa, che cerca di sopravvivere su un isola deserta. Ecco sempre la solita rappresentanza di vip e vippettini (i guardoni del futuro pensano che poiché bisogna spiare sbadigli e peti, tanto meglio che siano sbadigli e peti di gente famosa) in una fattoria, in un circo, a portare vacche in giro per il West, o ad affrontare prove di pseudocoraggio (ma il coraggio maggiore ce l’ha chi segue questo Grande Nulla televisivo).

Nelle prossime puntate, le seguenti e angoscianti previsioni fatte dagli scrittori di fantascienza del 1895: Il mondo virtuale di internet visto come sostituto del mondo reale, la crescita esponenziale della copulazione promiscua tramite chat e blog; schiere di disperati del Terzo Mondo soggetti a penuria e malattie mentre i ricconi del mondo consumistico sprecano e inquinano sfruttando risorse altrui e manodopera sottopagata; dinamitardi kamikaze utilizzati su larga scala; massacri indiscriminati di popolazioni attuati con armamenti da marziani; il proliferare dell’arsenale atomico, anche presso Stati guidati da autentici squilibrati; il boom del turismo sessuale possibilmente pedofilo; il tentativo di migliorare la razza umana con l’ingegneria genetica, i certificati di buona salute genetica (attestanti ad esempio bassa possibilità di contrarre il cancro o malattie ereditarie) richiesti da certe aziende americane al personale; droga a gogò di ogni genere assunta in ogni ambiente (bevendo un bicchiere delle acque di scarico di una qualunque metropoli rischi la tossicodipendenza e perfino l’overdose); ossessione per la bellezza e la giovinezza, tette e culi al silicone, il viagra per tenere su l’uccello pure nella tomba; angoscianti cambiamenti climatici scatenati da gretti stili di vita capitalistici; suicidi di massa organizzati su internet; ragazze anoressiche in fin di vita a causa di perversi modelli estetici; edonismo galoppante manifestantesi in macchinoni superaccessoriati, vacanze agli antipodi e status symbol tecnologici; insomma, droga, sesso e quasi niente rock’n roll…
Questo e molto altro ancora prossimamente su questi schermi virtuali…

lunedì 12 marzo 2007

La dieta ossia un altro modo per fare sesso


La dieta? Si fa per dimagrire, per stare meglio con se stessi, per sentirsi più in forma, per volersi bene, per superare in maniera passabile la famigerata prova del costume, per affaticarsi di meno salendo le scale, perché i topi da esperimento vivono di più se mangiano poco, perfino per darcela a gambe con maggiore efficacia quando il cerbero che i vicini chiamano cane cerca di addentarci i fondelli.
E’ incredibile la varietà e l’inventiva delle risposte con cui si spiega perché iniziamo l’ennesima dieta. E’ incredibile pure che quasi nessuno si renda conto dell’inadeguatezza delle proprie spiegazioni. Si fa la dieta, quella classica di cui si discute con leggerezza con gli amici al bar o in autobus, per un solo motivo e solo per quello. Perché ci si prepara a fare sesso con un nuovo partner e si cerca di convincerlo con la nostra figura più snella e attraente che sarebbe un buon affare pure per lui. Ovviamente non è detto che questo ipotetico partner sessual-sentimentale esista davvero, per indurci a iniziare una dieta è sufficiente che noi lo percepiamo come tale.

Ieri sono andato a mangiare da mia sorella. Verso la fine del pranzo si è presentata un’amica spagnola della mia consanguinea. E' una donna caliente ed estroversa come le ballerine di flamenco che si vedono a cinema, parlava grossomodo come Natalia Estrada e ti faceva venir voglia di dire “Olé” nelle sue pause. In poco tempo la spagnola ha monopolizzato la conversazione, raccontando tra l’altro della dieta ferrea iniziata dal marito. Il suo consorte aveva perso 12 chili in poco tempo e non c’era alcun modo per indurlo in tentazione con dolci o leccornie. L’iberica riferiva tutta contenta di come lei e la figlia piccola tentassero l’uomo di casa ingozzandosi con ogni ben di Dio davanti ai suoi occhi, ma quello non recedeva dai suoi propositi. Era deciso a perire pur di non assumere zuccheri o grassi.
La prima cosa che ho pensato quando ho sentito il folcloristico resoconto della spagnola è che il marito avesse l'amante e anzi ci avrei scommesso fino all'ultimo soldo, mica si ammazzava a digiunare per lei... avrei perfino scommesso che l'amante del marito parlasse meno della spagnola, ma questa era una scommessa troppo facile da vincere. L’amica di mia sorella pareva abbastanza esperta del mondo da non farsi infinocchiare dalle eventuali spiegazioni datele dal consorte sulla sua tenacia nell’alimentarsi bene. Tuttavia il fatto non sembrava crearle soverchi traumi esistenziali.

Ciò che chiunque sa o dovrebbe sapere è che la dieta non consiste nel mangiare di meno. Non consiste nell’eliminare zuccheri o ridurre calorie. Quella è davvero l’ultima cosa. La dieta, quella che non parte il lunedì e finisce il sabato, è cambiare del tutto regime di vita. E’ pensare che prima vivevi in una maniera e ora vivi in un’altra. Prima abitavi in Italia e ora te ne vai a passare il resto della vita in Alaska. Prima ti chiamavi Giovanni o Giuseppina e ora ti chiami Arcibaldo o Genoveffa.
Ho qualche dubbio sul fatto che le persone normali, quelle che si sono alimentate tutta la vita in un certo modo, possano di punto in bianco cambiare abitudini alimentari. Possono farlo per settimane o per mesi, ma poi cedono, tornano alle vecchie abitudini e riprendono con gli interessi il peso perso. Gli individui che seguono la dieta come sistema di vita sono quelli che l’hanno sempre fatta. Quelli che mangiano bene hanno sempre mangiato bene. Quelli che in definitiva vivono in Alaska hanno sempre vissuto lì.

No, la dieta è davvero un sacrificio troppo grande per le persone normali. E per fare questo sacrificio così grande, anche per un periodo circoscritto di tempo ci vogliono motivazioni fuori dalla norma. Tutte le ragioni esposte all’inizio del post sono risibili. Anche quelle relative alla difesa della salute a mio modo di vedere non reggono (esclusi casi estremi). Per decenni la gente ha continuato a fumare senza problemi, anche se era chiaro a tutti che il fumo non ti allunga la vita. Si comincia a farlo di meno ora solo perché i fumatori si trovano di fronte a un sempre maggiore ostracismo sociale.
Dunque per dimagrire ci vogliono forti motivazioni. E quali sono le più forti motivazioni dell’essere umano da che mondo è mondo? Sono quelle legate alla sfera riproduttiva. All’amore. All’irruzione (vera o presunta) di un nuovo partner sentimentale-sessuale nella nostra vita. Infatti, così come la dieta può essere un sacrificio immane in periodi di normali, diventa una pratica del tutto possibile e perfino facile per chiunque, anche per persone non dotate di una insuperabile forza di volontà, quando si sta per iniziare un nuovo amore e si vuole bene impressionare un nuovo partner sentimentale.
L’amore, o il sesso a seconda dei punti di vista, smuove le montagne e ottiene un risultato perfino più difficile… fa portare avanti le diete con successo. Almeno finché non ci si senta accettati o rifiutati. Cioè almeno finché non sia scomparsa la necessità di ben figurare presso l’oggetto dei nostri desideri.

Ho escluso dalle mie considerazioni casi speciali come ad esempio quello degli attori, che con il loro fisico ci vivono.

giovedì 8 marzo 2007

L'amore al tempo dei Sioux


Perché Cavallo Pazzo mi è così simpatico? Era un grande guerriero e siamo d’accordo. Era un tipo tosto, capace di digiunare per giorni nel deserto o di sottoporsi a privazioni indigeste pure ai più coriacei Sioux, e siamo d’accordo. Fece a pezzi l’arroganza di Custer e ha preferito la morte a una prigione dei Uas’ichu “ladri di grasso”, e siamo d’accordo. Era un tizio più pazzo del Cavallo di cui portava il nome o dei Trecento e dei Seicento situati tra Termopili e Balaklava, capace di caricare da solo una tribù di Shoshoni e un reggimento di Giacche Blu senza farsi sfiorare da un freccia o da una pallottola… e nessuno obietta niente. Che altro? Ah, avrebbe potuto arricchirsi, diventare, con il bottino di guerra delle sue tante vittorie, un Paperone dei Sioux, avere cavalli, pellicce, tende enormi piene di trofei, ma volle rimanere poverissimo a favore del suo popolo… però non è per questi motivi che questo personaggio mi è caro.
No, ho amato Cavallo Pazzo come un fratello, ho dovuto ammettere dopo aver letto il bel saggio di Vittorio Zucconi ispiratore di queste righe, perché era imbranato con le donne. Può sembrare assurdo, ma questo essere impavido in battaglia, che avrà sfidato la morte centinaia di volte nelle condizioni più svantaggiose, era timidissimo con le squaw. E come tutti i timidi di questo mondo ha dovuto rinunciare ad amori già pronti e impacchettati perché aveva paura di dichiararsi. Tra l’altro c’era un gran pezzo di figliola Sioux Oglala, Donna Del Bisonte Nero, una sorta di strepitosa Pocahontas per cui spasimavano tutti i maschi delle sette e più tribù Lakota che, cotta di lui, non chiedeva che gettarglisi ai piedi. Ma il nostro eroe non troverà mai il coraggio di chiederla in sposa.
Le donne innamorate sono dotate di una pazienza variabile, ma a un certo punto pronunciano il fatidico “Basta aspettare!” e accettano la proposta del primo bellimbusto che si presenta davanti alle loro sottane. Il bellimbusto in questione quasi sempre ha la particolarità di essere la peggiore faccia da schiaffi di questo emisfero, codardo dove il moroso che si aspettava era intrepido, parolaio dove quello era silenzioso, vanitoso dove l’altro era umile… Così fu pure nel caso dell’avvenente Donna Del Bisonte Nero, che convolò a nozze con un tale Senz’Acqua, noto per inventarsi falsi mal di denti per non andare in guerra. Peraltro lo scellerato Senz’Acqua utilizzò la bugia dei denti, oltre che per salvare l’indegna pellaccia, per fregare, previo congruo esborso di cavalli, la donzella al rivale in amore approfittando della mancata concorrenza. Possiamo immaginare la reazione di Cavallo Pazzo quando, al ritorno da un periglioso combattimento con gli infidi Corvi, si vide “cornuto e mazziato”, avendo rischiato la vita solo per farsi soffiare la donna del cuore.

Breve digressione sulla condizione della donna sioux. Le squaw della nazione Lakota godevano di un'emancipazione sessuale senza dubbio superiore a quella delle loro contemporanee europee. Era vero che avevano un prezzo così come ce l’avevano le donne europee - nel vecchio continente la dote si pagava in terre o acconti bancari, qui si preferivano i più utili cavalli – ma le signore sioux potevano sia rifiutare l’eventuale pretendente, sia divorziare per direttissima quando ne avevano voglia. Per sciogliere il matrimonio infatti bastava che una squaw abbandonasse la tenda del marito e che entrasse in quella di un altro guerriero. Se quest’ultimo la accettava, ecco che in cinque minuti avevi divorziato e ti eri risposata senza colpo ferire. Le cose, si sa, erano un pochino più complicate di così, ma per questo post ci accontenteremo. Ecco le donne dell'Ettore indiano.

Donna Gialla, era una squaw Cheyenne sposata con un Sioux Brulè, che sopravvisse al massacro della tribù di Piccolo Tuono perché impegnata a partorire lontano dal suo villaggio (potrà sembrare incredibile, ma il villaggio di Piccolo Tuono fu massacrato dall'esercito per un questione legata allo smarrimento di una vacca). Cavallo Pazzo aveva solo dodici o tredici anni, trovò la partoriente con il figlio appena nato e scortò entrambi presso un’altra tribù. Alcuni anni dopo Donna Gialla, rimasta vedova, lo iniziò ai piaceri dell’amore.

Donna del Bisonte Nero, la già ricordata Femmina Fatale con la pazienza corta. Forse il solo vero amore del nostro eroe. Qualche anno dopo il matrimonio con il verme Senz’Acqua, accortasi probabilmente del grave errore fatto, fece una “fuitina” d’amore con Cavallo Pazzo. Il marito se la venne a riprendere e, aiutato da alcuni bravacci, sparò in faccia all’amante della moglie, che sopravvisse alla ferita e rinunciò a vendicarsi dopo l'intercessione di plenipotenziari Lakota e il pagamento di una mandria di cavalli incamerata dal fratello a causa del voto di povertà. Nove mesi dopo la fuga d’amore, Donna del Bisonte Nero mise alla luce una bambina che secondo le cronache era la copia del suo amante impossibile.

Scialle nero. Era una zitellona di ventinove anni, così poco avvenente da non necessitare di alcun esborso equino per comprarla. Il fratello, amico di Cavallo Pazzo, la sbolognò all’eroe Sioux dopo la grave ferita al viso, con la scusa che l’amico aveva bisogno di compagnia femminile. Cavallo Pazzo accettò Scialle Nero e le volle bene, così come amò la figlia che lei gli diede (morta in tenera età per tubercolosi, la malattia portata dai bianchi).

Nellie Larabee, un donna di sangue misto bianco e Sioux. I bianchi, dopo la resa degli ultimi Oglala, la spinsero verso Tashunka Uitko per fare da spia. Ma Nellie, innamoratasi dell’eroe indiano, fece la spia al contrario.

Paolo e Francesca della prateria. Avrei voluto vedere che atmosfera si percepiva nel villaggio di Cavallo Pazzo nei momenti precedenti la fuga d'amore con Donna del Bisonte Nero. Doveva essersi creata una situazione piena di elettricità. I due amanti mancati che non si erano mai potuti sfiorare dovevano scambiarsi occhiate di fuoco, cercavano di appartarsi, sussurravano paroline complici illudendosi che nessuno li udisse. Dovevano avere visi e occhi che rivelavano il loro amore come un libro aperto. S'era creata una situazione esplosiva di cui doveva mormorare tutta la nazione Sioux. Qui c'era il più grande eroe indiano, l’essere che Uakan Tanka aveva scelto come suo servitore donandogli invulnerabilità in battaglia; e dall’altra parte c’era questa reginetta di bellezza Sioux, una figliola di ottimi natali imparentata con il capo Nuvola Rossa, una pasionaria dell'amore che aveva conservato il fascino nonostante un paio di gravidanze e alcuni anni di matrimonio con il codardo Senz’Acqua. Era la classica situazione di amore proibito che scatena curiosità e pettegolezzi a non finire in ogni epoca. Paolo e Francesca. Abelardo ed Eloisa, Tristano e Isotta. Anche le pietre e i coyote sembravano chiedersi quando sarebbe deflagrata quella situazione insostenibile.
Altro che Clinton con Monica Lewinsky. L’amore bello e impossibile che si realizzava in quel villaggio era il gossip del gossip della prateria.

Leggi: Cavallo Pazzo vive nei cuori rossi

lunedì 5 marzo 2007

Cavallo Pazzo vive nei cuori rossi


“Vuole dire che quell’ometto insignificante lì sarebbe il famigerato Cavallo Pazzo? La belva umana che ha annientato il Settimo Cavalleria di Custer e ha sconfitto il generale Crook a Rosebud Creek? Non ci posso credere, signor tenente, mi dica che si tratta di un errore.”
Il tenente Philo Clark si sistemò sulla testa il bianco cappello da cowboy che era il suo tratto distintivo nella guarnigione distaccata a Fort Robinson. Aveva l’uniforme lustra e le mostrine splendenti perché quel giorno, lo capivano tutti, si celebrava la vittoria definitiva dell’esercito americano contro la resistenza indiana. Era la fine di un epoca, ma ancora di più di un popolo. “Tu non guardi bene, caporale. Ti fermi alle apparenze. Guarda oltre quel fisico esile e quella sua faccia da fame. Guarda meglio.”
Il caporale Foster osservò con più attenzione la lenta e cupa processione di pellerossa che si dirigeva verso il drappello di soldati di cui faceva parte. Ma più guardava e più non capiva. Quello che si avvicinava era un esercito di fantasmi denutriti e pezzenti, che si reggeva a malapena su cavalli ancora più deperiti dei loro padroni. Come diavolo era potuto accadere che quelle parodie umane avessero avuto la meglio sui fucili Spingfield e sulle mitragliatrici Gatling in forza al Settimo Cavalleria? Quale assurdità storica aveva permesso a quei selvaggi straccioni di massacrare il fiore dell’esercito americano guidato da uno dei figli prediletti della Nazione, un eroe che, lo giuravano in molti, sarebbe diventato il prossimo presidente degli Stati Uniti?
No, si disse il caporale, il celebrato Cavallo Pazzo non aveva niente di solenne o ammirevole. Era magro, piccolo, molto più piccolo dei suoi colleghi Sioux Oglala che in genere erano dei lungagnoni ben piantati, nudo come un verme eccetto che per una coperta sbrindellata gettata sulle spalle e un perizoma che gli copriva a malapena le parti intime. Un primitivo cencioso che faceva molto meno impressione del bell’esemplare di Sioux che gli cavalcava al fianco, il tenente l’aveva chiamato Lui Cane, un personaggio imponente, avvolto da una completa tenuta da guerra e da un vistoso copricapo composto da almeno duecento penne d’aquila. No, quell’ometto pelle e ossa con il capo coperto da un'unica penna di falco rosso non poteva aver sconfitto una leggenda vivente come Custer, doveva esserci un imbroglio sotto.

Il capo indiano tese al tenente Clark la mano sinistra, la mano del cuore e dell’amicizia, rifiutando la destra che colpisce in battaglia. Poi Cavallo Pazzo passò in rassegna le giubbe blu a cui si arrendeva. Il caporale Foster si sentì agitare lo stomaco quando si vide inchiodare da uno sguardo di fuoco. Gli parve di capire tutto in una volta. Gli parve di capire perfino perché il presidente Ulysses Grant avesse chiesto di portargli quest’uomo a Washington per conoscerlo.
Sbrigate le prime formalità di quella resa incondizionata, il tenente Clark si avvicinò al suo sottoposto “E’ un'assurdità”, mormorò facendosi aria con il cappellone bianco, “quest’uomo non ha mai perso una battaglia con l’esercito americano, anzi ha sconfitto in ogni occasione il meglio delle nostre truppe a dispetto del superiore armamento, eppure è costretto ad arrendersi. Strana la vita, non trovi?”
Il caporale Foster a dire il vero non trovava quella faccenda troppo strana. I Sioux come tutti gli uomini di questa terra dovevano mangiare per vivere e per combattere. E come potevano nutrirsi, specie in inverni gelidi e inclementi come l’ultimo, dopo che dalle praterie era sparita la loro principale fonte di sostentamento, ossia il bisonte? Ormai i farabutti assoldati dalle compagnie ferroviarie, primo fra tutti il noto Buffalo Bill, che si diceva capace di uccidere fino a mille bestioni al giorno, avevano sterminato intere mandrie di bisonti, inventando il primo metodo di genocidio moderno.

A quel punto il caporale Foster dovette abbandonare le sue riflessioni perché si accorse che accadeva qualcosa di straordinario. Da qualche parte intorno a Fort Robinson si alzò prima una voce e poi un’altra e un’altra ancora. Quindi ecco apparire da ogni direzione manipoli di indiani, centinaia e centinaia di Sioux Oglala, Brulé o Mineconju, perfino qualche Senz’Arco e Hunkpapa, e poi Cheyenne, Aràpaho, e Piedi Neri. In poco tempo si materializzò un intero popolo, accorso dai tristi villaggi di sconfitti situati nelle vicinanze del forte, per accogliere il suo più grande eroe, vinto dopo aver vinto ogni battaglia. Erano vecchi, donne, bambini vocianti, giovani che avevano perso la speranza, guerrieri alcolizzati e derisi dai nuovi padroni bianchi, sciamani con le lacrime agli occhi. Era un mare di disperati che continuava ad affluire da ogni direzione, un fiume in piena che cresceva di minuto in minuto. Così come cresceva di intensità il canto struggente intonato da quei derelitti che avevano perso la dignità e cercavano di riacquistarla quel giorno, per qualche minuto, tributando un ultimo onore al campione della loro gente.
“Tashunka Uitko! Tashunka Uitko!” intonarono dieci, cento, mille e più gole. Era un grido così forte da far tremare le vene al manipolo di soldati avventuratisi fuori dalla sicurezza rappresentata dai bastioni del forte, da far fremere i cavalli e indurre dita nervose ad accarezzare i grilletti dei moderni fucili a ripetizione. “Tashunka Uitko!”
Il caporale Foster non aveva bisogno di conoscere il Lakota per sapere qual era il nome di Cavallo Pazzo nella lingua della sua gente.

Lo struggente canto elavatosi in onore di Cavallo Pazzo quel 6 maggio del 1877 non si è mai spento, ma ha continuato a echeggiare nei cuori dei nativi americani per tutti questi anni di abbrutimento e schiavitù culturale all’odiato Uas’ichu (ossia “colui che ruba il grasso”, quello che ti ruba quanto di meglio hai, così era chiamato con notevole acume l’uomo bianco in lingua Lakota).
Cavallo Pazzo è stato un caso eccezionale tra i pur tanti valorosi leader indiani. E’ stato l’unico capo – anche se non era un vero capo politico, ma solo un guerriero, poverissimo perché per sua scelta poteva possedere solo il necessario per combattere - che si sia sempre rifiutato di farsi fotografare dai vincitori o di farsi considerare un fenomeno da baraccone al servizio dei nuovi padroni. Non si piegò mai alla cultura dei bianchi, anche se uno dei suoi più grandi amici è stato un ufficiale dell’esercito che poi ha ispirato il film di Kevin Costner Balla coi lupi. E rifiutò in ogni occasione di patteggiare con i menzogneri plenipotenziari governativi, che qui ti facevano firmare un trattato di pace valido “finché il sole splenderà e l’erba crescerà” e pochi anni dopo, quando sul tuo territorio veniva scoperto l’oro, se lo rimangiavano allegramente ordinandoti di rinunciare a tutto ciò che rende un uomo tale, terra, cultura, onore, libertà. Tashunka Uitko non è finito in un circo come il sia pur valoroso Toro Seduto che accettò di fare il buffone nello spettacolo di Buffalo Bill. Non è finito alcolizzato in una riserva, ombra di se stesso, come Geronimo. Non è stato un collaborazionista da campo di concentramento come accadde a tanti capi, Sioux e non, come Nuvola Rossa.

Cavallo Pazzo è considerato dagli indiani molto di più di come noi consideriamo, per esempio, Giuseppe Garibaldi o qualsiasi altro eroe. Valutando la forte natura mistica di questo personaggio, per fare un paragone corretto bisognerebbe dire che i nativi americani considerano Tashunka Uitko come una via dì mezzo tra Garibaldi e san Francesco.

giovedì 1 marzo 2007

Scriviamo un romanzo


Diciamo che siamo stati folgorati da un’idea. Tutti hanno buone idee e ne abbiamo avuta una pure noi proprio ieri notte mentre non riuscivamo a dormire, forse per il caffè, forse per le bollette da pagare, forse per il dannato declassamento della nostra auto da Euro Pinco a Euro Pallino con conseguente aumento di tassazione. Più la accarezziamo nella mente e più quell’idea ci sembra accattivante e suscettibile di miglioramenti e arricchimenti. Sembra quasi creta che da plasmare a nostro piacimento. A un tratto, ecco la rivelazione che pare trasmessaci da un’entità sovrannaturale: e se ne facessi un romanzo?
Passato il primo momento di sconcerto, questo proposito non ci sembra poi tanto campato in aria. Non ci riteniamo gli ultimi stupidi del globo e, anzi, a scuola di difendevamo piuttosto bene nei compiti di italiano. Abbiamo un blog che ci permette di allenarci nella scrittura e di migliorare il nostro modo di esprimerci. E dato che la nostra ultima fiamma ha avuto il colpo di genio di lasciarci per un bellimbusto più piacione e più ricco, ci avanza pure un po’ di tempo libero che aspetta di trovare un impiego adeguato.
In ogni modo, ci diciamo, non è che in giro nelle librerie si vedano tutti questi gran talenti letterari. Alcuni best seller ci sembrano delle vere e proprie boiate anche se ben confezionate, e alcuni successi italiani paiono dovuti solo alla tendenza degli autori alla ninfomania o alla frequentazione di tristissimi talk o reality show. C’è posto pure per il nostro tentativo. Abbiamo già tutto quello che ci serve. L’idea fulminante, la voglia di scrivere, il tempo per farlo e una nuova e fiammante tastiera che canta che è una bellezza sotto le nostre dita. Il romanzo può iniziare.

E’ incredibile la facilità con cui spesso ci mettiamo a scrivere narrativa, spesso senza avere la più pallida idea di quali siano le regole per realizzare una storia romanzata. Ci basta pensare di avere l’idea giusta ed ecco che subito ci lanciamo a produrre pagine su pagine sentendoci delle novelle star letterarie. Io stesso quando iniziai a scrivere ero del tutto all’oscuro di alcuni concetti indispensabili per scrivere bene (naturalmente il fatto di conoscere le giuste regole di scrittura non significa che tu le sappia attuare, così come conoscere alla perfezione la teoria del gioco del calcio non significa che tu ti trasformi in Maradona se calchi un terreno di gioco).
In particolare, alcune delle nozioni che non conoscevo e non padroneggiavo e che forse non conoscono e non padroneggiano molti volenterosi scrittori alle prime armi (ma anch’io sono alle prime armi, dato che non ho mai pubblicato niente di soddisfacente) erano le seguenti.

Raccontare contro mostrare. Questa è una delle regole basilari della scrittura ed è sorprendente che così tanti autori, anche noti, non la conoscano o evitino di applicarla con la dovuta intransigenza. Raccontare è più o meno usare la seguente fraseologia “Elena odiava Michele e glielo faceva capire in ogni occasione”. Mostrare è invece scrivere qualcosa come “Elena strappò in pezzi minutissimi tutte le lettere scrittele da Michele, quindi si armò di un paio di forbici e prese a dilaniare il guardaroba del marito”. La prassi generale della narrativa dice che raccontare è una pessima abitudine, mentre mostrare è una tecnica espressiva occhei (bisogna comunque dosare le due situazioni narrative secondo una percentuale desiderabile).

In media res. Altro grave errore degli autori non esperti è quello di iniziare un capitolo – o meglio una “scena” come dicono i manuali di scrittura creativa – in modo lento e tedioso, con la descrizione di paesaggi, stati d’animo o azioni inconsistenti che porta solo ad accumulare pagine inutili e a deprimere il lettore. Il suggerimento è quello di iniziare una scena-capitolo dal mezzo, ad azione avanzata. Se la scena è un litigio, iniziare il racconto a bisticcio inoltrato, se la scena descrive un licenziamento o un matrimonio, iniziare da una strana e inquietante lettera che troviamo sulla nostra scrivania o da un sì in abito bianco. Mostrare prima l’azione; quindi in un secondo momento si avrà il tempo, con una breve digressione, di spiegare come si è arrivati a quel punto.

Pensare per scene. Il pensare per episodi quando si scrive un romanzo è una diretta conseguenza dei primi due punti. Il costruire il tuo romanzo su alcune scene principali ti impedisce di ricorrere troppo al tedioso raccontare, a ciò che l’autrice di un manuale di scrittura creativa definiva “la malattia degli era, erano”: “Elena era una donna sola, terrorizzata dalla vita cittadina. I suoi vicini di casa al contrario erano…”. Pensare per scene evita il lento raccontare e ti costringe a sviluppare trame narrative più efficaci.

Il punto di vista. Anche qui è incredibile notare l’ignoranza assoluta che, perfino scrittori di best seller, mostrano verso questo aspetto della narrativa. Una stessa scena può essere narrata attraverso il punto di vista di Elena, di Michele o del ragazzo che ti consegna la pizza a casa, ossia utilizzando le percezioni, le emozioni e i pensieri di uno qualsiasi dei personaggi di una scena. Oppure ci si può rifare a un punto di vista più esterno e impersonale, che in narrativa viene chiamato “onnisciente” perché è quello di un osservatore esterno che tutto sa di quella situazione come se fosse un piccolo Dio. Un errore che non si dovrebbe fare mai, ma in cui cadono spesso pure personaggi insospettabili, è utilizzare due o più punti di vista nella stessa scena. Ossia passare dalla narrazione attraverso gli occhi (e gli altri sensi) di Elena al racconto che utilizza i sensi di Michele o la visione superiore del narratore onnisciente. Altro grave errore è la moltiplicazione eccessiva dei punti di vista in un romanzo.

Chiaramente gli accorgimenti tecnici e le regole da padroneggiare per chi voglia scrivere narrativa sono molto più vasti di quelli esposti in breve in questo post. C’è da capire come definire efficacemente un personaggio, un ambiente, come utilizzare con parsimonia le potenzialità del dialogo e saper sviluppare una trama, che cosa significano parole come flashback o foreshadowing, come capire se un incipit o se un climax (le parole difficili non mancano in letteratura) sono quelli che fanno al caso nostro. Come condensare e migliorare la nostra prosa. Senza scordare la regola più importante di tutte. Revisionare, revisionare, revisionare tutto quello che si è scritto. Revisionare per poter sopravvivere.

Mi sono dilungato fin troppo in questo post. Ma dato che la vita è lunga (incrociamo le dita) e che anche la permanenza sul blog dovrebbe durare ancora un po’ (ancora dita incrociate)… di sicuro avrò modo di tornare su questi argomenti.