sabato 31 gennaio 2015

Cavallo Pazzo nei cuori rossi

Sto scrivendo molto al di fuori del blog e non ho tempo di buttare giù un nuovo post. Siccome non voglio rinunciare al proposito di pubblicare almeno una volta al mese, ho deciso di riproporre un mio vecchio post su Cavallo Pazzo. In questo piccolo racconto il celebre capo indiano, che terminò la carriera imbattuto sui campi di battaglia, fu costretto ad arrendersi ai bianchi per sottrare la sua gente a una morte certa per fame. Mentre veniva scortato alla prigione, fu riconosciuto da altri indiani sconfitti, riuniti intorno a Fort Robinson. A quel punto ogni nativo americano, a qualunque tribù appartenesse, acclamò Cavallo Pazzo come un eroe, sentendo rinascere nel cuore l’antica fierezza dei cavalieri liberi delle praterie.

“Vuole dire che quell’ometto insignificante lì sarebbe il famigerato Cavallo Pazzo? La belva umana che ha annientato il Settimo Cavalleria di Custer e ha sconfitto il generale Crook a Rosebud Creek? Non ci posso credere, signor tenente, mi dica che si tratta di un errore.”

Il tenente Philo Clark si sistemò sulla testa il bianco cappello da cowboy che era il suo tratto distintivo nella guarnigione distaccata a Fort Robinson. Aveva l’uniforme lustra e le mostrine splendenti perché quel giorno, lo capivano tutti, si celebrava la vittoria definitiva dell’esercito americano contro la resistenza indiana. Era la fine di un epoca, ma ancora di più di un popolo. “Tu non guardi bene, caporale. Ti fermi alle apparenze. Guarda oltre quel fisico esile e quella sua faccia da fame. Guarda meglio.”

Il caporale Foster osservò con più attenzione la lenta e cupa processione di pellerossa che si dirigeva verso il drappello di soldati di cui faceva parte. Ma più guardava e più non capiva. Quello che si avvicinava era un esercito di fantasmi denutriti e pezzenti, che si reggeva a malapena su cavalli ancora più deperiti dei loro padroni. Come diavolo era potuto accadere che quelle parodie umane avessero avuto la meglio sui fucili Spingfield e sulle mitragliatrici Gatling in forza al Settimo Cavalleria? Quale assurdità storica aveva permesso a quei selvaggi straccioni di massacrare il fiore dell’esercito americano guidato da uno dei figli prediletti della Nazione, un eroe che, lo giuravano in molti, sarebbe diventato il prossimo presidente degli Stati Uniti?

No, si disse il caporale, il celebrato Cavallo Pazzo non aveva niente di solenne o ammirevole. Era magro, piccolo, molto più piccolo dei suoi colleghi Sioux Oglala che in genere erano dei lungagnoni ben piantati. Nudo come un verme, eccetto che per una coperta sbrindellata gettata sulle spalle e un perizoma che gli copriva a malapena le parti intime. Un primitivo cencioso che faceva molto meno impressione del bell’esemplare di Sioux che gli cavalcava al fianco, il tenente l’aveva chiamato Lui Cane, un personaggio imponente, avvolto da una completa tenuta da guerra e da un vistoso copricapo composto da almeno duecento penne d’aquila. No, quell’ometto pelle e ossa con il capo coperto da un'unica penna di falco rosso non poteva aver sconfitto una leggenda vivente come Custer, doveva esserci un imbroglio sotto.

Il capo indiano tese al tenente Clark la mano sinistra, la mano del cuore e dell’amicizia, rifiutando la destra che colpisce in battaglia. Poi Cavallo Pazzo passò in rassegna le giubbe blu a cui si arrendeva. Il caporale Foster si sentì agitare lo stomaco quando si vide inchiodare da uno sguardo di fuoco. Gli occhi dell’indiano ardevano di rabbia e sdegno, nonostante il corpo macilento che li ospitava. Riuscivano ancora a farti provare un brivido di paura, a farti pensare che non saresti mai stato al sicuro mentre quello sguardo ti inquadrava. Il corpo dell’uomo era sconfitto, ma la sua anima aveva ancora voglia di combattere e uccidere. Al caporale Foster parve di capire tutto in una volta. Gli parve di capire perfino perché il presidente Ulysses Grant avesse chiesto di portargli quest’uomo a Washington per conoscerlo. Sbrigate le prime formalità di quella resa incondizionata, il tenente Clark si avvicinò al suo sottoposto “E’ un'assurdità”, mormorò facendosi aria con il cappellone bianco, “quest’uomo non ha mai perso una battaglia con l’esercito americano, anzi ha sconfitto in ogni occasione il meglio delle nostre truppe a dispetto del superiore armamento, eppure è costretto ad arrendersi. Strana la vita, non trovi?”

Il caporale Foster a dire il vero non trovava quella faccenda troppo strana. I Sioux come tutti gli uomini di questa terra dovevano mangiare per vivere e per combattere. E come potevano nutrirsi, specie in inverni gelidi e inclementi come l’ultimo, dopo che dalle praterie era sparita la loro principale fonte di sostentamento, ossia il bisonte? Ormai i farabutti assoldati dalle compagnie ferroviarie, primo fra tutti il noto Buffalo Bill, che si diceva capace di uccidere fino a mille bestioni al giorno, avevano sterminato intere mandrie di bisonti, inventando il primo metodo di genocidio moderno.

A quel punto il caporale Foster dovette abbandonare le sue riflessioni perché si accorse che accadeva qualcosa di straordinario. Da qualche parte intorno a Fort Robinson si alzò prima una voce e poi un’altra e un’altra ancora. Quindi ecco apparire da ogni direzione manipoli di indiani, centinaia e centinaia di Sioux Oglala, Brulé o Mineconju, perfino qualche Senz’Arco e Hunkpapa, e poi Cheyenne, Aràpaho, e Piedi Neri. In poco tempo si materializzò un intero popolo, accorso dai tristi villaggi di sconfitti situati nelle vicinanze del forte, per accogliere il suo più grande eroe, vinto dopo aver vinto ogni battaglia. Erano vecchi, donne, bambini vocianti, giovani che avevano perso la speranza, guerrieri alcolizzati e derisi dai nuovi padroni bianchi, sciamani con le lacrime agli occhi. Era un mare di disperati che continuava ad affluire da ogni direzione, un fiume in piena che cresceva di minuto in minuto. Così come cresceva di intensità il canto struggente intonato da quei derelitti che avevano perso la dignità e cercavano di riacquistarla quel giorno, per qualche minuto, tributando un ultimo onore al campione della loro gente.

“Tashunka Uitko! Tashunka Uitko!” intonarono dieci, cento, mille e più gole. Era un grido così forte da far tremare le vene al manipolo di soldati avventuratisi fuori dalla sicurezza rappresentata dai bastioni del forte, da far fremere i cavalli e indurre dita nervose ad accarezzare i grilletti dei moderni fucili a ripetizione. “Tashunka Uitko!”

Il caporale Foster non aveva bisogno di conoscere il Lakota per sapere qual era il nome di Cavallo Pazzo nella lingua della sua gente.

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