
Mi è venuta voglia di scrivere sul caso di Natascha, la bambina ora diventata ragazza, sequestrata per otto anni da Wolfgang, un amico di famiglia che oggi sarebbe quarantaquattrenne.
Prima di iniziare, alcune cose banali. Il rapimento della ragazzina è un atto aberrante, spaventoso. Se il rapitore non si fosse ucciso, solo la prigione a vita avrebbe potuto punire i suoi crimini. Sono contro la pena di morte, ma trovo lecito che si pensi di punire con l’esecuzione capitale delitti inauditi come questo.
La storia la conoscono credo tutti. Natascha fu rapita otto anni fa a Vienna, ne aveva dieci, da un tecnico elettronico e tenuta prigioniera in una cantina resa abitabile. Solo pochi giorni fa è fuggita dalla prigionia. Wolfgang il rapitore si è ucciso gettandosi sotto un treno appena saputo della fuga.
Ora dirò alcune mie impressioni avute udendo la notizia per la prima volta. Si tratta solo di percezioni dell’animo, niente di riflessivo. Pure e semplici congetture, probabilmente senza fondamento alcuno. La prima cosa che ho pensato udendo della fuga e del suicidio è che l’orco rapitore e la ragazzina, sia pure a loro modo, avessero sviluppato un sentimento simile all’amore. Il loro non era un rapporto tipo aguzzino che ti tortura e gode della tua sofferenza. Ho pensato che i sentimenti che uniscono le persone sono stranissimi e a volte stupefacenti e che in questo caso un forte legame aveva tenuto vicini, sia pure nel modo degenere sotto gli occhi di tutti, questi due esseri umani.
Otto anni sono estremamente lunghi, ho riflettuto. La ragazzina deve aver avuto decine, forse centinaia di occasioni di fuggire dalla sua prigionia. Deve aver avuto pure svariate occasioni di uccidere il suo aguzzino. Se non l’ha fatto ci devono essere state ragioni potenti e quelle ragioni possono risiedere solo nel campo dei sentimenti umani. La puoi chiamare sindrome di Stoccolma, la puoi chiamare affettività morbosa, oppure puoi pensare a questo come a un evento inspiegabile e ambiguo situato in qualche regione ai confini dell’amore. Non so cosa ci fosse, ma c’era. C’era questo sentimento che ha impedito alla ragazzina di fuggire.
Inoltre se uno ti tratta male, se uno ti tortura, o semplicemente se tu soffri perché vivi in una situazione angosciante, non vivi otto anni. Non ne vivi nemmeno due di anni. Natascha, questo ho pensato udendo la notizia, non percepiva la sua prigionia come un evento insopportabile. E forse durante questo lungo periodo è stata molte volte felice con il suo rapitore (anche se ciò evidentemente non rende meno atroce il crimine di cui questi si è reso colpevole).
C’è un’altra cosa che ho pensando udendo la notizia. Wolfgang il sequestratore non si è ucciso per la certezza di essere catturato e dover pagare duramente per il suo crimine. Non gliene importava molto di andare in galera o di morire, magari per mano del solito ergastolano con licenza di uccidere. Si è ucciso perché aveva capito che il suo amore - assurdo, malvagio e riprovevole quanto si vuole - era finito. Si è ucciso per amore come fanno tanti uomini, perché, nonostante l’enormità delle sue azioni, era un uomo pure lui. Non mi piace la parola mostro. La si usa spesso, quasi sempre a sproposito. Penso che siamo tutti uomini. Anche quando ci rendiamo colpevoli degli atti peggiori. Wolfgang, il tecnico elettronico e aguzzino, probabilmente cercava l’amore e non riusciva a trovarlo. Ha sofferto molto per questa mancanza, ma molto. Un giorno ha creduto di procurarsi questo agognato sentimento rapendo una ragazzina di dieci anni e sottraendola alla sua esistenza di normalità. Forse era mosso anche da uno spirito di vendetta contro l’universo femminile, non so. Nel suo modo malato amava Natascha, almeno così ho riflettuto quando i telegiornali davano la notizia. Sarebbe stato disposto a soffrire, anche molto, per lei, ma non a perderla. Quando ha scoperto che l’amore era finito e non sarebbe tornato più per tutta la vita, si è ucciso.
Queste erano solo mie impressioni epidermiche. Eppure sono state in un certo senso confermate da alcune dichiarazioni televisive di Natascha che ho ascoltato oggi. La ragazza era in buona forma: pareva in migliori condizioni di sue coetanee preda di anoressia, gravi depressioni o droga. Si esprimeva bene (con proprietà linguistica sottolineavano i commentatori) e, come io avevo sospettato, la sua dura esperienza la faceva parlare con la saggezza di una quarantenne.
Mi ha sorpreso soprattutto una sua affermazione, detta con una maturità impressionante, e con dolore: “Fuggendo sapevo di condannarlo a morte”.
Fuggendo sapevo di condannarlo a morte.
Questa non è la frase che dici al tuo aguzzino dopo otto anni di torture psicologiche e fisiche. Natascha sapeva che lui si sarebbe ucciso e sapeva i motivi per cui lo avrebbe fatto.
Fuggendo sapevo di condannarlo a morte.
Si era creato qualcosa tra questi due esseri umani. Io non so cosa fosse, ma c’era.
... sapevo di condannarlo a morte.
La vita è strana. Chi afferma di averla compresa è un illuso. Spesso ci imbattiamo in cose che vanno al di fuori della nostra esperienza, e ci confondono.
Fuggendo...