
Dunque, sono già seduto nel salotto dell’agente letteraria. Sono teso come non mai, perché mi pare che dall’imminente conversazione dipenderà il mio futuro su questa terra. Tra poco, ne sono certo, gli anni di lavoro, le migliaia di ore spese a rifinire e revisionare i miei scritti avranno un significato o dovranno essere buttati nel gabinetto.
L’agente letteraria seduta nella poltrona di fronte alla mia, quella già ricompensata con 500 mila sudatissime lire, è una snella signora sui trentacinque, attraente, con un tono di voce da doppiatrice di scuola classica. Mi ha già ricordato che sta per partire per non so quale rinomata località di montagna; anzi ha già fatto intendere che se non fosse stato per me a quell’ora già si troverebbe con gli sci ai piedi o con un’amante dei quartieri alti che la scalda meglio di qualsiasi camino altoatesino. Indossa una gonna piuttosto corta, che si è accorciata ulteriormente da quando ha accavallato le lunghe gambe, sistemate in pose statuarie degne della più algida Grace Kelly di un film di Hitchcock.
Siamo ancora ai convenevoli, quando ecco che per la prima volta cambia accavallatura alle gambe. Nel farlo, come se accadesse per un normale evento motorio, spalanca le ginocchia e mostra quello che c’è in mezzo, che per fortuna non è uno spettacolo palese quanto quello rimirabile in Basic istinct (si vedono i collant e un paio di mutandine di un colore chiaro che potrebbe essere pure bianco).
Non faccio molto caso al gesto. Sono in preda alle più potenti emozioni letterarie che io abbia mia sperimentato. E tra l’altro sono ancora infiacchito dalla mancanza assunzione della merenda sottrattami in treno. In ogni modo sono così ingenuo in fatto di donne che non ho ben presente la dinamica precisa dell’accavallamento di gambe femminile, evento che potrebbe pur contemplare un certo spalancamento di gambe, per quanto ne so.
L’agente letteraria ha finito i convenevoli e mi comunica che il mio romanzo, certo, ha qualche spunto interessante e creativo, pur tuttavia… Mi sfugge una parte del discorso perché nella fase saliente dello stesso la mia interlocutrice modifica ancora l’intrecciatura delle sue estremità mostrandomi, per un paio di interminabili secondi, mutandine senza dubbio bianche. Deglutisco a vuoto e blatero singulti inumani. Lei spiega che i miei personaggi sono piuttosto originali e hanno una ammirevole dose di spirito anarcoide, però… e via con il balletto delle stanghe. La trama e i colpi di scena sono interessanti, ma… (gambe allargate, generosa esibizione di biancheria intima, nuovo accavallamento). Sul climax e sul conflitto risolutivo, pur apprezzando il ritmo con cui lo porto a conclusione, è costretta però ad aggiungere… cioè ad allargare…
Io mi agito dolorante sul divano. La sola (microscopica) parte della mia mente capace di articolare pensieri vagamente razionali è certa che la padrona di casa non abbia letto una riga del mio romanzo (quando le parlo di una determinata scena quella svicola perché con tutta evidenza non sa di cosa parlo). Capisco pure che, nonostante le cinquecento cocuzze incamerate per ignorare il mio romanzo, sta facendo a pezzi la mia creatura letteraria.
Cerco di ribattere, di oppormi alla stroncatura. Ma le maledette cosce aperte sono sempre lì davanti a me a impiastricciarmi la lingua. Mi sento tutto un fuoco dentro e fuori. Mi sporgo verso lei cercando di farle capire che, se i suoi sono messaggi, io so interpretarli. Quella, come vede ridurre di pochi millimetri la distanza che ci separa, serra le estremità e mi fulmina con gli occhi.
Batto in ritirata sentendomi più babbeo che maniaco. Si va avanti un po’ di tempo così. Gambe aperte e accavallature da pazzi quando me ne sto a soffrire a distanza. E gambe serratissime e folgori dagli occhi quando, ritrovato un minimo di coraggio, mi riavvicino alla mia interlocutrice cercando di non sbavare troppo dalla lingua penzoloni.
Dopo l’ennesima telefonata a cui deve rispondere (chiamate che riducono a un terzo il tempo effettivo del colloquio), la mia interlocutrice mi fa capire che la conversazione è finita. Mi comunica che sono un individuo fortunato. Sono riuscito a parlarle anche se è impegnatissima, mi porto a casa una meditata disamina letteraria (un foglietto con una decina di banali righe a commento del mio romanzo) senza dubbio utile per apportare le necessarie modifiche al mio progetto letterario (lei mi farà uno sconto da vera amica quando le farò leggere la nuova versione del romanzo… e magari per lo stesso prezzo mi fare sbirciare pure un po’ nelle regioni dove non batte il sole). E ho la sua parola d’onore che si impegnerà in tutti i modi, al momento opportuno, per spedire la mia opera alle case editrici, i cui pezzi grossi conosce come le sue tasche.
Me ne vado con la sensazione che non tutto il male viene per nuocere. Da oggi conosco un po' meglio il mondo dell'editoria.
L’agente letteraria seduta nella poltrona di fronte alla mia, quella già ricompensata con 500 mila sudatissime lire, è una snella signora sui trentacinque, attraente, con un tono di voce da doppiatrice di scuola classica. Mi ha già ricordato che sta per partire per non so quale rinomata località di montagna; anzi ha già fatto intendere che se non fosse stato per me a quell’ora già si troverebbe con gli sci ai piedi o con un’amante dei quartieri alti che la scalda meglio di qualsiasi camino altoatesino. Indossa una gonna piuttosto corta, che si è accorciata ulteriormente da quando ha accavallato le lunghe gambe, sistemate in pose statuarie degne della più algida Grace Kelly di un film di Hitchcock.
Siamo ancora ai convenevoli, quando ecco che per la prima volta cambia accavallatura alle gambe. Nel farlo, come se accadesse per un normale evento motorio, spalanca le ginocchia e mostra quello che c’è in mezzo, che per fortuna non è uno spettacolo palese quanto quello rimirabile in Basic istinct (si vedono i collant e un paio di mutandine di un colore chiaro che potrebbe essere pure bianco).
Non faccio molto caso al gesto. Sono in preda alle più potenti emozioni letterarie che io abbia mia sperimentato. E tra l’altro sono ancora infiacchito dalla mancanza assunzione della merenda sottrattami in treno. In ogni modo sono così ingenuo in fatto di donne che non ho ben presente la dinamica precisa dell’accavallamento di gambe femminile, evento che potrebbe pur contemplare un certo spalancamento di gambe, per quanto ne so.
L’agente letteraria ha finito i convenevoli e mi comunica che il mio romanzo, certo, ha qualche spunto interessante e creativo, pur tuttavia… Mi sfugge una parte del discorso perché nella fase saliente dello stesso la mia interlocutrice modifica ancora l’intrecciatura delle sue estremità mostrandomi, per un paio di interminabili secondi, mutandine senza dubbio bianche. Deglutisco a vuoto e blatero singulti inumani. Lei spiega che i miei personaggi sono piuttosto originali e hanno una ammirevole dose di spirito anarcoide, però… e via con il balletto delle stanghe. La trama e i colpi di scena sono interessanti, ma… (gambe allargate, generosa esibizione di biancheria intima, nuovo accavallamento). Sul climax e sul conflitto risolutivo, pur apprezzando il ritmo con cui lo porto a conclusione, è costretta però ad aggiungere… cioè ad allargare…
Io mi agito dolorante sul divano. La sola (microscopica) parte della mia mente capace di articolare pensieri vagamente razionali è certa che la padrona di casa non abbia letto una riga del mio romanzo (quando le parlo di una determinata scena quella svicola perché con tutta evidenza non sa di cosa parlo). Capisco pure che, nonostante le cinquecento cocuzze incamerate per ignorare il mio romanzo, sta facendo a pezzi la mia creatura letteraria.
Cerco di ribattere, di oppormi alla stroncatura. Ma le maledette cosce aperte sono sempre lì davanti a me a impiastricciarmi la lingua. Mi sento tutto un fuoco dentro e fuori. Mi sporgo verso lei cercando di farle capire che, se i suoi sono messaggi, io so interpretarli. Quella, come vede ridurre di pochi millimetri la distanza che ci separa, serra le estremità e mi fulmina con gli occhi.
Batto in ritirata sentendomi più babbeo che maniaco. Si va avanti un po’ di tempo così. Gambe aperte e accavallature da pazzi quando me ne sto a soffrire a distanza. E gambe serratissime e folgori dagli occhi quando, ritrovato un minimo di coraggio, mi riavvicino alla mia interlocutrice cercando di non sbavare troppo dalla lingua penzoloni.
Dopo l’ennesima telefonata a cui deve rispondere (chiamate che riducono a un terzo il tempo effettivo del colloquio), la mia interlocutrice mi fa capire che la conversazione è finita. Mi comunica che sono un individuo fortunato. Sono riuscito a parlarle anche se è impegnatissima, mi porto a casa una meditata disamina letteraria (un foglietto con una decina di banali righe a commento del mio romanzo) senza dubbio utile per apportare le necessarie modifiche al mio progetto letterario (lei mi farà uno sconto da vera amica quando le farò leggere la nuova versione del romanzo… e magari per lo stesso prezzo mi fare sbirciare pure un po’ nelle regioni dove non batte il sole). E ho la sua parola d’onore che si impegnerà in tutti i modi, al momento opportuno, per spedire la mia opera alle case editrici, i cui pezzi grossi conosce come le sue tasche.
Me ne vado con la sensazione che non tutto il male viene per nuocere. Da oggi conosco un po' meglio il mondo dell'editoria.