venerdì 3 febbraio 2006

La più grande partita di tutti i tempi

L’anno, l’Ottantanove, il 5 aprile. Il posto, lo stadio Santiago Bernabeu di Madrid, in campo Real e Milan. L’ora, le nove di sera o poco prima.
L’occasione: la più grande partita di tutti i tempi, quella che aspetti da vent’anni. Quella che vedrai una sola volta nella vita.
E’ fatta, è il giorno della verità. Lo stadio di Madrid è gremito in ogni ordine di posti. I tifosi spagnoli si preparano a fare festa ai danni dell’ultima vittima sacrificale italiana (qualcuno di loro pensa che le squadre italiane sono state create per questo, per farsi massacrare con poco onore nella bolgia del Bernabeu dopo aver cullato assurde speranze di passare il turno di Coppa dei Campioni). Le squadre sono in campo. Flash dei fotografi. Cori assordanti basati sulla ripetizione della parola “matar”. Tensione. Tensione anche nella voce del telecronista della Rai. Ci fosse Garibaldi in tribuna Vip, direbbe: “Qui si fa l’Italia (quella nuova del calcio) o si muore”.

Da una parte i temutissimi giustizieri del Real. Ecco nel cerchio del centrocampo la figura dell’”avvoltoio” Emilio Butragueño, che già fissa rapace la porta in cui fatalmente piazzerà qualcuna delle sue fulminee zampate da opportunista. Un po’ più in là stazionano il portiere Buyo e il gelido alemanno Bernd Shuster. Il 46 di piede attribuito al potente giocatore tedesco non è certo l’arma più pericolosa che il munitissimo arsenale del Real Madrid può schierare questa sera.
Non è finita. Ecco ancora, ripresa per un attimo a tutto schermo, la bruna sagoma del centravanti madridista Hugo Sanchez, il più grande giocatore messicano di tutti i tempi. Ah, Hugo, quanti dispiaceri ci hai dato! Per noi tifosi italiani sembri il becchino incaricato di sotterrare i nostri sogni di gloria. Hai assassinato l’Inter per ben due volte nella trappola mortale che chiamate stadio Santiago Bernabeu. Quante volte ti abbiamo visto fare i salti mortali con cui festeggi i gol! Le tue capriole sono uno spettacolo, degne di un acrobata da circo, ma noi qui in Italia non siamo mai riusciti ad apprezzarle quanto meritano. Anzi per molti di noi quello del tuo salto mortale in avanti è il momento di spegnere il televisore. Il momento di capire che tutto è perduto.
Dall’altra parte del campo, i giocatori del Milan sono intorno all’allenatore per gli ultimi suggerimenti prima dell’incontro. Ecco le treccine reggae e la figura statuaria di Ruud Gullit, l’unico non accigliato. Ecco l’elegante silhouette del Cigno Van Basten, più silenzioso e serio che mai, sa che quella sera si deciderà il futuro suo e della squadra. Ecco Carlo Ancelotti a stretto contatto con lo staff tecnico, con accanto il re del dribbling Donadoni e il giovane Maldini, ed ecco infine l’uomo nato per giocare quella partita, l’uomo senza paura, quello che non arretra, il duro di quando i tempi si fanno duri, l’ultimo dei Trecento alle Termopili a cedere il passo, ecco Franco Baresi con gli occhi ridotti a due fessure attraverso cui scruta il mondo ostile che vorrebbe triturarlo e rimandarlo in Italia con le ossa rotte. Se questa partita sarà una disfatta, come molti pensano e sperano, anche in Italia, non c’è dubbio che Franco Baresi sarà l’ultimo ad arrendersi e morirà con la bandiera rossonera (e anche con un po’ di Tricolore) in pugno.

C’è il tempo di vedere in eurovisione l’ultimo dei protagonisti di questa serata, ma forse il primo. Ha un paio di grossi occhiali da sole che di recente inforca anche a mezzanotte nelle strade più buie di Milano e Fusignano. Sotto le lenti scure nasconde occhi che dardeggiano fuoco allo stato puro, li abbiamo visti qualche volta nelle interviste prima della partita e ci hanno impressionato. Quando fissa la telecamera, consigliamo ai bambini di guardare altrove. E’ lui. Il Messia. Il pazzo. L’ayatollah del calcio. Colui che non conosce compromessi e diplomazia. L’uomo che si è messo in testa un’idea meravigliosa e anche assurda.
No, non è Cesare Ragazzi, anche se avrebbe assoluto bisogno di un trapianto di capelli che gli vivacizzi il cranio pelato anzitempo. E’ Arrigo Sacchi. L’uomo rimasto bambino. Il nemico pubblico numero uno del gioco all’italiana. Il sognatore del gioco d’attacco da attuare nella patria del Catenaccio. Il Robespierre senza compressi che decapiterà e morirà decapitato.
Sacchi ha parlato molto negli ultimi tempi. Per alcuni dei suoi tantissimi detrattori (in questi primi quattro mesi del 1989 deve essere in assoluto il personaggio più odiato d’Italia, perfino più di Giulio Andreotti e Bettino Craxi messi insieme), ha parlato pure troppo. Ha detto, contro il parere di autorevoli critici sportivi alla Gianni Brera, che pure in Italia si può attuare il pressing, premessa indispensabile per il gioco d’attacco di cui lui è il primo fautore. Ha detto che il ruolo di “libero” per lui è morto e sepolto. Ha giurato che preferirebbe mille volte la morte a una delle classiche partite difensiviste del gioco all’italiana, con gli avversari che bivaccano nella tua area da rigore come Lanzichenecchi e tu difensore che quasi caschi in ginocchio chiedendo salva la vita. Ha detto che la difesa si deve attuare sulla linea di centrocampo e non nell’area di rigore (talvolta in quella piccola) in cui si rifugiano le tremebonde squadre del Belpaese. Infine ha annunciato, con una delle sue battute che tanto piacciono ai tifosi quanto fanno ingoiare litri di bile amara alla classe dei giornalisti quasi al completo, che se vede un suo giocatore correre indietro invece che in avanti entra in campo e gli spara un colpo alla nuca.

E’ vero, il Messia del Calcio ha parlato molto. Ora però, sotto gli occhiali da sole con cui nasconde la sua enorme tensione, anche lui deve temere di aver parlato troppo. Anche lui deve pensare che forse la sua carriera di allenatore è giunta al capolinea. Certo, è facile dire che per una squadra vera di calcio non fa differenza giocare in casa o fuori; ed è ancora più facile sostenere che quella squadra deve saper imporre il suo gioco sul suo campo e dovunque. Ma quell’affermazione non può essere vera quando vai a giocare nello stadio più difficile del mondo, contro la squadra più blasonata che esista. No, se Arrigo ha conservato un briciolo di raziocinio, anche lui starà riflettendo che la cosa migliore che gli può portare questa serata è una sconfitta di misura, ottenuta senza dover subire troppo la pressione dei padroni di casa… e forse pure questo è sperare troppo.
Basta, non c’è più tempo per pensare o avere paura. La partita ha inizio. Il fischio dell’arbitro risuona con una nota secca, che sa di campana a morte.

1 commento:

  1. e ti piace il calcio vieni a visitarmi...
    postato da 22Kakà(M.C.) il 08/03/2006 22:20

    chissà perché questo è il post che ha ricevuto il minor numero di commenti, quando a mio avviso è quello che ho scritto meglio (non che questo debba significare molto).
    postato da penultimo il 17/02/2006 21:38

    Sono un amico di Giulio Gervasini e, al contrario di quelle ragazze, apprezzo molto il tuo pezzo spero che finirai in fretta la seconda parte.
    postato da 22Kakà(M.C.) il 03/02/2006 23:00

    RispondiElimina